Nei giorni in cui si registrano un incidente, che nel Mar Cinese meridionale ha coinvolto un sommergibile Usa che ha urtato un oggetto di cui non è stata specificata la natura, ma di cui si sospetta l’origine cinese, e l’ennesima dichiarazione bellicosa di Xi Jinping su Taiwan, le diplomazie americane e cinesi hanno avviato una serie di colloqui virtuali che potrebbero rappresentare l’inizio di una fase di avvicinamento fra i due paesi.



La ripresa del dialogo sulla politica commerciale segue gli accordi “di fase 1” avviati dall’amministrazione Trump e ha avuto come protagonisti il rappresentante commerciale degli Stati Uniti, Katherine Tai, e il vicepremier cinese, Liu He. A questo incontro va aggiunto il meeting di Zurigo fra il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, e il suo omologo cinese Yang Jiechi, che secondo indiscrezioni rappresenterebbe un passo in avanti rispetto al fallimento dei colloqui di Anchorage e ha avuto una funzione preparatoria all’incontro fra Biden e il presidente cinese Xi, che potrebbe concretizzarsi a margine del vertice del Gruppo dei 20 a Roma, che inizierà il 30 ottobre.



Un rapporto, quello fra Usa e Cina, che al momento sembra viaggiare su due binari: uno sul quale procede la progressiva militarizzazione dell’Indo-Pacifico, e l’altro che con meno clamore vede le due diplomazie scambiarsi segnali di disgelo come, ad esempio, il rilascio del direttore finanziario di Huawei, Meng Wanzhou, a cui ha fatto seguito la liberazione di due cittadini incarcerati dalle autorità cinesi dopo l’arresto di Meng.

Due aspetti di una strategia composita che permette ai due rivali di mantenere più opzioni sul tavolo, ma che per l’amministrazione Biden ha una valenza precisa. La “diplomazia implacabile” che il presidente americano ha annunciato nel suo primo intervento all’Assemblea generale dell’Onu non implica tanto la rottura definitiva dei rapporti commerciali con la Cina, quanto piuttosto una strategia in cui in qualche modo resiste l’impostazione ispirata al realismo di Henry Kissinger, secondo la quale una forte interrelazione fra le due economie rende Pechino dipendente dal capitalismo a guida americana. Uno schema che ha in qualche modo costretto il governo cinese a fornire la liquidità di 700 miliardi di dollari che ha salvato l’economia americana dopo la crisi economica del 2008.



Molte cose sono cambiate da allora e i dazi imposti dall’amministrazione Trump e le aspirazioni egemoniche di Xi hanno peggiorato radicalmente le relazioni fra i due paesi, ma quanto dichiarato da Katherine Tai al Centro di studi strategici e internazionali di Washington dimostra che l’interconnessione fra le due economie è ancora una necessità strategica per gli Usa.

Dopo aver bacchettato la Cina, colpevole di essere inadempiente verso gli accordi di “fase 1”, la Tai ha manifestato la volontà dell’amministrazione Biden di gestire la competizione con la Cina in una modalità che non deve sfociare in un conflitto aperto e addirittura ha sostenuto che piuttosto che operare a favore di un decoupling, gli Usa opereranno a favore di un recoupling, ovvero un riaccoppiamento fra le economie dei due paesi, definendo un contesto in cui, mentre la tensione continua a salire nel Mar cinese meridionale, la diplomazia opera per una riapertura delle relazioni commerciali.

Sarebbe, però, ingenuo pensare che si stia aprendo una nuova fase nelle relazioni fra i due paesi. Ciò a cui stiamo assistendo è una riconfigurazione delle catene di approvvigionamento in cui il riavvicinamento fra le due economie non deve implicare una diretta dipendenza dal rivale sistemico. La ripresa del dialogo commerciale è funzionale alla rimozione dei dazi, tema che sta molto a cuore a Pechino, e non deve pregiudicare il raggiungimento di una posizione di forza all’interno delle catene del valore globale e l’autonomia finanziaria e produttiva.

Indipendentemente dalla volontà dei due contendenti, questa strategia potrebbe essere perseguita in futuro con maggiore convinzione per il semplice motivo che i due paesi sembrano destinati ad affrontare problemi simili. Inflazione, rialzo del costo delle materie prime, crescita esponenziale del debito – che dopo il caso Evergrande, sarà un grave problema anche per il governo cinese – e regolamentazione dei Big tech sono problemi troppo grandi per essere gestiti in autonomia e potrebbero costringere i due paesi a qualche forma di tacito accordo.

Ma a ben vedere il recoupling fra le economie reali dei due avversari implica il decoupling finanziario, ovvero la fine dell’accesso delle società cinesi al mercato dei capitali americani e un massivo delisting delle imprese cinesi da Wall Street e quindi il ritorno in grande stile della regolamentazione e dello Stato in un settore che ha plasmato le sorti dell’economia globale negli ultimi quarant’anni.

Un’operazione di addomesticamento che né Xi né tantomeno Biden possono immaginare di poter fare da soli.

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