Il viaggio di Antony Blinken a Pechino avviene in una fase delle relazioni sino-americane favorevole agli Stati Uniti. Da quando, nello scorso febbraio, la crisi dei palloni-spia aveva fatto saltare la missione diplomatica del segretario di Stato in Cina, la strategia americana di “contenimento” nell’Indo-Pacifico ha fatto dei passi in avanti, consolidando i suoi obiettivi.



In primo luogo, l’alleanza con la Sud Corea e il Giappone è saldissima. Un risultato non scontato, vista la reciproca diffidenza fra i due Paesi asiatici che ormai procedono in modo concordato nella gestione del dossier cinese. Le leadership del primo ministro giapponese Fumio Kishida e dal presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol concordano sulla necessità di una responsabilità condivisa nel garantire un Indo-Pacifico “aperto” ai traffici commerciali, cosa che sostanzialmente implica una postura assertiva nei confronti dalla politica cinese verso Taiwan.



Anche le Filippine sono parte organica della strategia americana. Ferdinand Marcos jr ha recentemente concesso un maggiore accesso alle sue basi alla US Navy con cui ha condotto da poco delle esercitazioni militari in partnership con la marina militare giapponese.

Lo storico viaggio del primo ministro indiano Narendra Modi negli Stati Uniti, previsto il 22 giugno, rappresenta un ulteriore tassello della strategia americana, che mai come in questa fase sembra seriamente interessata a stringere una stretta relazione con l’India. A riguardo l’amministrazione Biden intende utilizzare come leva il trasferimento di tecnologie abilitanti per i settori strategicamente più rilevanti come i semiconduttori, l’intelligenza artificiale e tecnologia militare. Non sembra un caso che il viaggio di Modi sia strato preparato da Jake Sullivan, il capo del Consiglio di Sicurezza nazionale fautore di una nuova architettura delle relazioni internazionali realmente multipolare e in cui la questione dello sviluppo economico è strettamente connessa a quella della sicurezza.



Inoltre, la “amicizia senza limiti” fra Russia e Cina ha portato il G7, riunito il mese scorso a Hiroshima, su posizioni sempre più distanti da Pechino e a favore di un Indo-Pacifico libero nei traffici commerciali e “aperto”, ovvero allineato alla strategia americana.

A fronte di questo scenario, il viaggio di Blinken, più che essere propedeutico a delle “prove di disgelo”, punta a porre i paletti della competizione sino-americana e a tracciare i limiti del confronto evitando che nel breve periodo essa porti a esiti imprevedibili e ingovernabili. In definitiva ha l’obiettivo di gestire le tensioni e stabilizzare le relazioni sino-americane, due punti che in questa fase favoriscono gli Usa, che così continuano a limitare l’accesso cinese all’alta tecnologia e rafforzano la posizione di Taiwan. Non è un caso che l’arrivo del segretario di Stato americano sia stato anticipato da un’intensa attività della marina e dell’aviazione cinese intorno Taiwan, come a testimoniare l’incrollabile volontà di Pechino di non rinunciare alla riunificazione con “l’isola ribelle”, un atteggiamento tipico dei cinesi che quando sono in difficoltà mostrano i muscoli.

Ciò nonostante Xi non intende rimanere con le spalle al muro. Il tentativo di fare della Cina un paese attrattivo nei confronti delle grandi multinazionali e di quello che un tempo era chiamato il Sud del mondo può sembrare una strategia contraddittoria, ma indubbiamente può essere vantaggiosa. L’incontro fra Xi Jinping e Bill Gates rappresenta una interessante occasione per riflettere sul modo in cui la Cina intende mostrarsi all’estero. Dopo aver ribadito un’amicizia di vecchia data con Gates, come a dimostrare la persistenza di un legame molto stretto, Xi ha dichiarato che non intende perseguire la vecchia strategia di “un Paese forte in cerca di egemonia”, ma che piuttosto è intenzionato a promuovere una nuova fase di sviluppo comune. Un tipo di discorso che continua ad esercitare un grande fascino per i Paesi che guardano all’Occidente con diffidenza e che addirittura si dichiarano vicini alla Russia di Putin. Una situazione rappresentata plasticamente dal presidente francese Emmanuel Macron, che ha detto di essere “scioccato da quanta credibilità stiamo perdendo nel Sud del mondo”, mentre Josep Borrell, l’alto rappresentante Ue per gli affari esteri, ha esplicitamente denunciato “la potenza della narrativa russa” nei confronti dei Paesi non occidentali.

Un contesto complesso, che di certo non verrà risolto dalla missione diplomatica di Blinken a Pechino, ma la tendenza a creare un sistema di relazioni autenticamente multipolare non sembra essere l’espediente retorico di due nazioni in competizione, quanto, piuttosto, il frutto di una necessità. Usa e Cina non hanno la forza di imporsi come potenze egemoni e la creazione di un sistema di relazioni orizzontale, multipolare e, chissà, più democratico può rappresentare uno spiraglio di speranza per un mondo sull’orlo di un nuovo conflitto.

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