La telefonata a sorpresa tra i due Big Boss del pianeta, Joe Biden e Xi Jingping, cade in un momento particolare per le due superpotenze, entrambe alle prese con il rallentamento della ripresa dell’economia, più evidente in Cina ma che si comincia ad avvertire anche negli Stati Uniti, già sotto shock per le disavventure afghane.
Il ventesimo anniversario degli attentati alle Torri Gemelli cade infatti pochi giorni dopo la caduta di Kabul, a suo tempo vissuta non solo come la prima tappa della vendetta contro il terrore, ma anche come l’avvio di un piano per esportare la democrazia occidentale in giro per il mondo. I due obiettivi sono stati mancati, più il secondo del primo. E questo comporta la tentazione per l’inquilino della Casa Bianca di ritirarsi in casa, in una sorta di isolazionismo che, spera Biden, sia così gradito alla classe media americana da favorire la vittoria dei democratici alle elezioni di mid-term.
“Ma – scrive The Economist – l’idea che il minor interesse per la politica estera sia nell’interesse della classe media può condurre a grossi errori, a partire dalla scelta del protezionismo. La storia ci insegna che la caduta di Saigon non provocò la sconfitta nella Guerra Fredda. E gli interessi globali degli Usa oggi sono infinitamente più importanti che negli anni Trenta, quelli dell’isolazionismo: almeno 39 milioni di posti di lavoro in Usa sono legati ai 33mila miliardi di investimenti esteri negli States”.
Insomma, Biden farebbe bene a non proseguire nella pericolosa convinzione, ereditata da Donald Trump, che buona parte dei mali d’America derivano dalla Cina. E’ il suggerimento in arrivo da duecento e più managers Usa, preoccupati per le conseguenze dello strappo.
Ma il mondo del business, sia in Cina che in Usa, è ancor più preoccupato dalla svolta in atto a Pechino, da cui arrivano notizie contrastanti. A confermare la diffidenza verso l’Occidente giunge la notizia che il mese scorso sono stati cancellati gli esami di lingua inglese per le scuole elementari di Shanghai: basta, insomma, con i modelli educativi che puntano all’ingresso nelle grandi scuole Usa, mito dei ricchi vecchi e nuovi.
La Cina, è il messaggio di Xi, non deve seguire i modelli del capitalismo, ma puntare al “benessere comune”, cancellando gli eccessi della politica dell’arricchimento individuale.
La cronaca offre molti spunti in questa direzione. Negli ultimi mesi, dopo il brusco stop alla quotazione di Ant Group, la leva finanziaria di Alibaba, si sono moltiplicate le mosse anti-profitto. Le scuole private, un business miliardario, sono state brutalmente ridimensionate. E lo stesso sta capitando ai colossi del gaming, colpevoli di diffondere “l’oppio della gioventù”, cui sono concesse solo tre ore di videogiochi alla settimana. E così, nel tentativo di sfuggire alla mannaia del presidente Xi, le società si stanno prestando a comportamenti indigesti, quasi contro natura per i Big della Borsa Usa.
Piduoduo, colosso dell’e-commerce, ha annunciato giganteschi investimenti nel commercio fisico, a sostegno del piccolo commercio. Quasi una tassa autoimposta per evitare guai peggiori: Tencent e Alibaba hanno versato oltre 15 miliardi di dollari, i due terzi degli utili, per iniziative a favore del “benessere comune”.
Ma dietro a questa presunta generosità c’è un quadro sociale instabile, in cui emergono i limiti di un welfare modesto, quasi inesistente, inasprito dalla crisi delle grandi immobiliari già protette dal regime, come Evergrande, il colosso da 100 miliardi di debiti in dollari cresciuto attraverso una formula di vendita basata sugli anticipi delle famiglie che per la casa pagavano in anticipo l’intera somma dovuta, ancor prima dell’inizio dei lavori. In questo modo, grazie alla leva finanziaria, Evergrande ha potuto per anni moltiplicare il giro d’affari ed estendere la propria attività anche in altri business, a partire dalla speculazione in Borsa.
Ma il sistema è andato in crisi quando le aziende di credito, su invito della banca centrale, hanno voluto un anno fa vederci chiaro nel castello di carte costruito da Evergrande, a suon di debiti nei confronti dei fornitori. Di qui l’avvio di una crisi che sembra arrivata al capolinea: Evergrande non è in grado di costruire 778 grandi condomini in 223 città, case pagate per intero da gente che si è indebitata fino al collo con i mutui. E la situazione non è limitata alla sola Evergrande.
Insomma, il presidente a vita Xi ha i suoi problemi così come l’inquilino della Casa Bianca. Da lunedì l’America è destinata a vivere mesi molto intensi sia per le scadenze politiche sia per il grande esperimento sociale costituito dal venir meno dei sussidi straordinari di disoccupazione legati alla pandemia. Ci sono da una parte più di dieci milioni di persone che verranno spinte a trovarsi un lavoro, mentre dall’altra ci sono altrettante posizioni di lavoro da coprire. Se domanda e offerta troveranno un buon punto d’incontro, le pressioni salariali si attenueranno. Se non lo troveranno, gli Stati Uniti si troveranno a confrontarsi con un problema che l’Italia conosce bene: la perdita definitiva di capacità produttiva dovuta al ritiro dal mercato e all’obsolescenza della forza lavoro disoccupata, inutilizzabile nell’attuale mercato del lavoro.
Per entrambi è decisiva l’evoluzione della pandemia, che sta colpendo la domanda in Usa, paralizzata dai nuovi contagi, così come l’offerta delle merci cinesi, ferme per assenza di materie prime e problemi della logistica. Speriamo che la telefonata sia di buon augurio.