Molto spesso le democrazie occidentali – ed in particolare quella americana – hanno sottolineato l’esistenza di un enorme divario tra libertà di espressione presente al loro interno e la repressione della libertà di espressione presente nei sistemi autoritari e totalitari. Ma le differenze non sono così enormi come potrebbe sembrare a prima vista. Sono in realtà più sottili. Se infatti rivolgiamo la nostra attenzione allo Espionage Act ci rendiamo conto che è stato utile all’amministrazione Obama, perché ha aiutato gli ufficiali a tenere segreto un programma pilota di omicidi mirati coi droni che prevedeva elenchi di obiettivi, a mantenere l’autorità necessaria per disporre incarcerazioni militari a tempo indeterminato e a proteggere ex funzionari governativi e personale militare dalle responsabilità per la parte avuta nel commettere torture ed altri crimini di guerra. In pratica ha contribuito al mantenimento di uno stato di guerra permanente.



Storicamente l’Espionage Act fu adottato nel 1917 dal presidente Woodrow Wilson per reprimere il dissenso verso la guerra, in particolare da parte delle organizzazioni di sinistra.

Wilson, dopo l’ingresso degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale, introdusse una legge per perseguire le spie, ma le condotte che la legge poteva criminalizzare andavano ben oltre lo spionaggio. Wilson definì la legge una mano ferma di dura repressione contro chiunque esprimesse il proprio dissenso verso la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra. Fin da subito l’Espionage Act rifletté il desiderio del governo di controllare l’informazione e l’opinione pubblica riguardo allo sforzo bellico. La legge prevedeva ampie proibizioni contro il possesso e la trasmissione di informazioni relative alla difesa nazionale, stabiliva pene severe per chi criticava la guerra, conteneva disposizioni sulla cospirazione e istituiva un sistema di censura della stampa.



Ma i poteri della legge non erano limitati al tempo di guerra e infatti il candidato presidenziale del Partito socialista Eugene Debs fu perseguito per violazione della legge e fu imprigionato per dieci anni. Secondo Debs la libertà di parola, di riunione e di stampa, tre fondamenti della democrazia e dell’autogoverno, grazie alla legge sullo spionaggio applicata e interpretata dai rappresentanti ufficiali della classe dominante erano diventate una barzelletta. A tutela della cosiddetta sicurezza nazionale, o meglio della ragion di Stato, nel 1919 la Corte suprema emanò una sentenza cruciale nella quale stabilì che la legge non violava il Primo emendamento. Fu usata anche nei confronti del socialista di Philadelphia Charles Schenck che distribuì alle reclute un pamphlet che li esortava a opporsi alla leva. In quel periodo quasi 2.500 persone furono perseguite in base a questa legge per le loro opinioni dissenzienti e la loro opposizione.



Il caso più celebre fu istruito nel 1971 contro Daniel Ellsberg, il whistleblower dei Pentagon Papers, colui che ha rivelato le bugie del governo Usa riguardo alla guerra in Vietnam. Quasi un secolo dopo la sua adozione, il governo ha potuto usare l’Espionage Act contro chiunque minacciasse il complesso militare-industriale americano o lo stato di emergenza successivo all’11 settembre.

Ma esiste un caso poco noto alla pubblica opinione europea ed in particolare quella italiana, un caso che dimostra ancora una volta fino a quale punto si possa spingere la paranoia governativa.

Jack Anderson, un editorialista di fama mondiale che era sulla lista dei “nemici” di Nixon, fu minacciato di un’azione penale per aver pubblicato gli “Anderson Papers”, documenti secretati che dimostravano che Nixon stava armando in segreto il Pakistan, impegnato nel dicembre 1971 nella guerra contro l’India, a dispetto dell’Office of Legal Counsel, l’ufficio di consulenza legale del dipartimento.

Anderson divenne un’ossessione per Nixon e i suoi assistenti. Il docente di giornalismo Mark Feldstein ha trovato le prove di un complotto ordito da ex agenti della CIA e dell’FBI per uccidere il giornalista mettendo in un bicchiere o nelle sue aspirine un veleno speciale che non avrebbe lasciato traccia durante l’autopsia, oppure mettendo LSD sul volante della sua auto in modo che lo assorbisse attraverso la pelle mentre guidava e morisse in un incidente provocato dalle allucinazioni.

Ma le dimensioni oscure determinate dalla ragione di Stato della democrazie sono molto più complesse di quanto non si possa immaginare, come dimostra in modo evidente la drammatica vicenda della Cambogia di Pol Pot.

A partire dal 1978 i khmer rossi entrarono a Phnom Penh e due milioni di persone, gli abitanti della capitale, vennero distribuiti a forza nelle zone rurali, nel tentativo di creare una civiltà di villaggio premoderna, libera da ogni presenza straniera e dove il livellamento sociale prevedeva la sparizione forzata delle classi medie, degli intellettuali, dei professionisti di ogni tipo. Sotto la guida del “fratello n. 1”, come si faceva chiamare Pol Pot, il rimodellamento sociale e intensivo propugnato dai khmer rossi si presentò come un estremizzazione radicalizzata delle esperienze comuniste del passato in cui la repressione colpisce l’intera popolazione, in primo luogo le minoranze vietnamita, cinese, musulmana Chams. Per oltre dieci anni l’alleanza tra la Cina comunista e gli Stati Uniti ha impedito che la Kampuchea democratica dei genocidari khmer rossi perdesse il seggio alle Nazioni Unite a favore del nuovo governo della Repubblica popolare di Kampuchea; ha imposto alla commissione dei diritti umani dell’Onu di ignorare un rapporto con mille pagine di testimonianze sulle violazioni e le violenze commesse dagli uomini di Pol Pot; ha bloccato le richieste da più parti di creare un tribunale penale internazionale per giudicare i responsabili del genocidio in Cambogia; ha evitato che nei documenti che accompagnavano i negoziati di pace – iniziati nel 1989 e terminati nel 1991 con gli accordi di Parigi – si parlasse non solo di genocidio, ma addirittura di crimini contro l’umanità.

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