La clinica pro gender USA finita nell’occhio del ciclone
Una piccola clinica per il gender, che si occupa di aiutare i giovani desiderosi di cambiare sesso, che ha sede negli USA, a Saint Louis ed afferisce all’Università di Washington, è stata citata in giudizio da una ex dipendente, che ha provocato un vero e proprio terremoto mediatico, sociale e politico. Di fatto dopo un breve periodo di attività limitata, la clinica è pian piano andata crescendo, con l’effetto di avere, oggi, centinaia di pazienti al mese, con un lista d’attesa decisamente lunga.
Aperta nel 2017, infatti, la clinica per il gender USA ha attraversato l’ampia ondata di aumento di richieste per le transizioni che si stanno vedendo negli ultimi anni, portando ad una moltiplicazione dei suoi clienti. All’epoca (ed anche ora) la clinica era vista come una vera e propria mamma dal cielo in una nazione in cui era pressoché impossibile intraprendere percorsi di transizione, o anche solamente di supporto per gli adolescenti confusi sul proprio genere sessuale. Tuttavia, lo scorso febbraio, una ex dipendente, Jamie Reed, che aveva lavorato nella clinica per il gender USA fin dalla sua apertura, ha presentato una serie di accuse che hanno avuto ripercussioni sia sulla clinica, che sulla stessa politica dello stato del Missouri (dove ha la sede).
Le accuse dell’ex dipendente: “Nessun controllo psicologico, troppi giovani si pentono”
Insomma, la piccola clinica per il gender USA si sarebbe trovata, da un giorno all’altro, nel centro di un vero e proprio ciclone, i cui esiti non sono ancora veramente conclusi. Partendo da qui, infatti, le accuse di Jamie Reed avrebbero spinto i decisori politici a cambiare le leggi sulla transizione, precedentemente concessa ai minori (previo consulto psicologico e medico, periodo di ripensamento ed in accordo con genitori o tutori), e che ora, invece, potrebbe essere vietata sotto i 18 anni.
Di fatto, se le nuove leggi per la transizione, l’attività della clinica per il gender negli USA cesserebbe, dato che è incentrata sui minori. Comunque sia, le accuse della ex dipendente furono raccolte in quella che lei stessa chiamò “lista rossa“, che conteneva un elenco di circa 80 pazienti della clinica che avevano attraversato, a causa della transizione, problemi fisici e mentali, o che si erano pentiti della loro scelta. Complessivamente, secondo la sua accusa, la clinica per il gender non avrebbe fornito a nessun minore il necessario supporto psicologico prima, durante e dopo il percorso di transizione, sostenendo che molte delle richieste arrivate dopo la pandemia fossero trainate dagli strascichi sulla salute mentale dei giovani lasciati dalle limitazioni.