Gli USA cercano in Libia l’alternativa al Mar Rosso. Mentre gli Houthi ostacolano il traffico mercantile diretto al canale di Suez, gli americani si rivolgono a Tripoli per approvvigionarsi di petrolio e creare un canale che rappresenti un’opportunità in più rispetto al corridoio messo in difficoltà dalla crisi mediorientale. Per questo, l’ambasciatore Richard Norland ha incontrato il presidente della NOC (National Oil Corporation), Farhat Bengdara, cercando di porre le basi per una possibile partnership che contempli l’aumento della produzione di petrolio libico.
Un progetto, osserva Mauro Indelicato, giornalista de Il Giornale e di InsideOver, che è ancora nella fase dei contatti, ma che permetterebbe agli Stati Uniti di acquisire peso in un territorio nel quale i russi si sono già piazzati, cercando addirittura di avere una base navale in Cirenaica. Sull’Africa, d’altra parte, non sono solo gli USA a fare grandi progetti. Lunedì, nella conferenza Italia-Africa, il governo Meloni presenterà il piano Mattei, che punta a controllare i flussi migratori e a sostenere lo sviluppo del continente. Un piano ambizioso, che prevederebbe hotspot in Africa come quelli ipotizzati nel Patto Italia-Albania e che Meloni vuole far diventare europeo, ma che deve fare i conti con Paesi in cui l’instabilità è all’ordine del giorno e che potrebbero non far tesoro degli aiuti che arrivano dall’Occidente.
Qual è il senso dell’iniziativa americana in Libia? Recuperare terreno rispetto ai russi, che si sono già ritagliati uno spazio in Cirenaica grazie all’amicizia con Haftar?
Ufficialmente non c’è presenza USA sul campo; la stessa ambasciata americana in Libia lavora da Tunisi. L’unica ambasciata occidentale a Tripoli rimane quella italiana. Gli Stati Uniti, comunque, hanno rimesso gli occhi sul Paese già poco dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Nella parte est della Libia sono presenti i russi, legati ad Haftar, che proprio in Cirenaica vogliono realizzare una base navale per il Mediterraneo. Tutto questo fa sì che gli USA abbiano interesse a tornare sul dossier libico. Non solo, non è un caso che l’incontro dell’inviato della Casa Bianca con i vertici NOC avvenga in questo momento: con la tensione nel Medio Oriente e nel Mar Rosso, derivante dagli attacchi degli Houthi alle navi mercantili, gli americani guardano con attenzione al mercato del petrolio libico, alla possibilità di stabilizzare la Libia per avere un Paese affacciato sul Mediterraneo che possa controbilanciare l’instabilità che caratterizza le altre regioni mediorientali.
Vogliono un’alternativa al petrolio che transita con difficoltà nel Mar Rosso?
Sì. Vogliono quanto meno coprire una quota di questo petrolio. Nel breve termine non ci sono problemi riguardo alle scorte di petrolio e di gas e anche i prezzi non sono aumentati, ma nel lungo periodo servono fonti di approvvigionamento più vicine all’Europa, alla zona di influenza degli USA.
Perché proprio la Libia?
Tripoli ha sempre vantato due fattori di successo nel mercato dell’energia: il primo è la posizione geografica. Trasportare il petrolio da lì per i Paesi europei, per gli alleati degli americani e per gli stessi USA, è molto più semplice, perché è a un tiro di schioppo. L’altro fattore è la qualità del petrolio: il tipo che c’è in Libia ha bisogno di poca lavorazione per essere raffinato, con evidente risparmio per quanto riguarda i costi.
La NOC ha sede a Tripoli, nella parte del Paese sotto l’influenza turca. Ankara non dice niente su questo rinnovato interesse americano?
Da quando la Turchia, nel 2019, si è avvicinata a Tripoli è stata molto influente dal punto di vista militare e politico, ma non ha ricavato molto da quello economico, tanto è vero che molti turchi non apprezzano la presenza a Tripoli, la reputano un esercizio di neo-ottomanesimo di Erdogan. Infatti durante le ultime elezioni presidenziali, l’opposizione ha fatto leva su una politica estera giudicata troppo espansiva. Il motivo per cui i turchi non riescono a incidere dal punto di vista economico è perché non hanno lo stesso know-how di altri Paesi. L’Italia ha una grossa fetta del gas e del petrolio libico perché è ben radicata lì da decenni. Gli USA hanno la capacità e la potenzialità per arrivare a Tripoli e cercare un accordo con la NOC, con i turchi che, dal punto di vista economico, stanno quasi a guardare.
L’eventuale intesa degli americani con la NOC può influire anche sulla presenza italiana, sugli interessi dell’ENI?
In questo momento no: i rapporti Tripoli-ENI sono molto solidi e l’azienda italiana rimarrà la prima, tra quelle occidentali, operativa nel Paese. Un anno fa a gennaio fra Italia e Libia sono stati firmati accordi per 8 miliardi di euro, che in gran parte prevedono investimenti nel settore del gas e del petrolio. L’interessamento americano sul lungo periodo potrebbe far aumentare la presenza USA in termini economici. Un’eventualità al momento remota: gli Stati Uniti in questa fase cercano più un consenso politico nella speranza di isolare i russi. Poi bisognerà vedere se a questo primo sondaggio condotto a Tripoli corrisponderanno azioni concrete.
L’Italia, intanto, si appresta a presentare il piano Mattei, per controllare i flussi migratori e sostenere lo sviluppo dei Paesi africani. La Meloni vuole che diventi un piano UE e prevederebbe anche la creazione di hotspot per i migranti sul tipo di quelli ipotizzati nel Patto Italia-Albania. Un piano ambizioso. Quali difficoltà può comportare la sua realizzazione?
L’accordo Italia-Albania ha tutto l’aspetto di una prova generale per vedere se simili accordi con Paesi terzi rispetto alla UE possano funzionare anche in Africa. Prima però deve partire l’accordo-prova: è al vaglio della Corte Costituzionale di Tirana, l’opposizione non lo ha gradito e le stesse comunità che dovrebbero ospitare gli hotspot sono in fibrillazione. Se il Patto con l’Albania avrà successo, poi si potrà vedere se potrà essere replicato in Africa.
Quali sono, allora, le incognite del piano Mattei?
L’Albania ha le sue istituzioni, il suo governo: è abbastanza stabile e affidabile. Invece, sappiamo che l’area mediorientale (intendendo con questo anche tutto il Nord dell’Africa, nda) è molto instabile adesso. Andare a stringere accordi così importanti con Paesi che non danno garanzie di stabilità potrebbe essere un rischio, un azzardo, per non dire un’utopia, sia dal punto di vista economico che da quello del controllo dei flussi. Il piano richiama l’opera di Enrico Mattei, che ha visto lungo sugli investimenti italiani in Africa e Medio Oriente, ma all’epoca questi erano territori molto più stabili, con i Paesi panarabi che seguivano l’Egitto di Nasser, altre nazioni filosovietiche, comunque governi stabili e affidabili. Oggi non è così perché l’area è molto frammentata. Bisogna dare atto, però, che quantomeno questo governo sta provando a guardare le cose in una prospettiva diversa, mettendo nero su bianco la strategia del Mediterraneo allargato.
Che area comprende questa strategia?
Parlando di Mediterraneo allargato si può intendere anche il Corno d’Africa, il Sahel, tutti quei Paesi a ridosso del Maghreb le cui dinamiche hanno influenza sul Mediterraneo. Lo si capisce anche in questi giorni: nei corridoi diplomatici si osserva che, con la crisi provocata dagli Houthi, si capisce come il Mediterraneo non finisca a Suez, ma nell’Oceano Indiano. Il Mar Rosso è quasi una costola del Mediterraneo.
(Paolo Rossetti)
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