L’articolo di Carole Rinville sulla situazione interna degli Stati Uniti contiene diversi spunti interessanti, soprattutto per quanto riguarda il funzionamento di una reale democrazia, quel sistema di organizzazione dello Stato che l’Occidente, con in primo piano gli Stati Uniti, sente il dovere di esportare in tutto il mondo.
Il punto centrale mi sembra la difesa della volontà della maggioranza dalle pretese delle minoranze che potrebbero impedire l’approvazione di leggi volute, appunto, dalla maggioranza dei cittadini. In effetti, è questo il punto critico delle democrazie: come contemperare le decisioni delle maggioranze con i diritti delle minoranze, evitando che queste siano discriminate.
I punti critici evidenziati per gli Stati Uniti sono: il Senato, in cui ogni stato ha due rappresentanti, qualunque sia il numero degli abitanti; la tecnica del filibustering, sempre al Senato, che obbliga ad avere una maggioranza di 60 su 100 per evitare il boicottaggio delle proposte di legge; la Corte Suprema, condizionata dalle nomine del presidente in carica e quindi dai suoi orientamenti politici e dalla sua visione della società.
Sono critiche centrate sul Senato, perché l’altro ramo del Parlamento, la House of Representatives, tiene conto delle dimensioni della popolazione. Il che non la salva da problemi, come quello del gerrymandering, cioè il modo in cui vengono disegnati, e ridisegnati, i distretti elettorali per favorire uno dei partiti. Il principio della maggioranza non è un assoluto, anche perché può cambiare la base su cui viene calcolato, per cui viene spesso richiesto un quorum minimo per la validità delle elezioni. Vedasi il recente caso italiano dei referendum sulla giustizia.
Quindi, mentre la Camera dei Rappresentanti rappresenta i cittadini, il Senato rappresenta gli stati della Federazione, considerati tutti membri alla pari. Un principio che si può discutere, ma che non sembra campato in aria, perché in uno Stato federale ogni membro mantiene una sua specifica identità, non sacrificabile di fronte agli altri più forti, e non solo per popolazione. Si pensi solo alle differenze in termini economici o finanziari, o di posizione geografica.
Un analogo discorso vale per l’Unione Europea, come scritto in un precedente articolo, dove il principio di unanimità mette sullo stesso piano la Germania, con i suoi 84 milioni di abitanti e il suo potere economico-finanziario, e Malta, con 500mila abitanti pur con una strategica posizione geografica.
Tuttavia, a differenza dell’Ue, nel caso degli Stati Uniti non sembra molto fattibile un ridisegno dell’assetto statale senza mettere a repentaglio la stessa esistenza dello Stato.
Anche il filibustering, di per sé senza dubbio discutibile, è una difesa dei più deboli nei confronti dei più forti, e la necessità dei 60 voti su 100 rappresenta in fondo una difesa del principio stesso di maggioranza, che non può essere basata solo sul principio “basta solo un voto di differenza”.
Una vera democrazia deve tenere in debito conto i diritti delle minoranze. L’articolo riporta un pezzo della giornalista Rani Molla che denuncia “La capacità della minoranza in piccole comunità, per lo più rurali e per lo più bianche, di prevalere sulla maggioranza”, facendo sì che “ciò che molti americani vogliono non si riflette nella legge americana”. Se si fosse fatto riferimento a minoranze nere sarebbe partita immediatamente l’accusa di discriminazione, ma qui si parla di “piccole comunità, per lo più rurali e per lo più bianche” e siamo quindi in perfetta political correctness progressista.
Sulla stessa linea l’osservazione sulla Corte Suprema: fino a che i suoi membri venivano nominati dal democratico Obama tutto bene. Poi è arrivato il reazionario Trump e ora la Corte ha “una maggioranza molto conservatrice”, con “nove giudici che possono cambiare la vita quotidiana degli americani”.
Da osservatore esterno, mi viene da dire che sia il presidente che la Corte hanno il compito di rispettare e far rispettare la Costituzione, ciascuno per la sua parte, e che comunque la nomina dei giudici viene approvata dal Senato. Non vi è dubbio che le assonanze politiche o partitiche abbiano influenza, ma ciò è inevitabile in qualsiasi ordinamento. La cosa importante è, come recita il sito della Corte, che essa “si renda garante verso il popolo americano della promessa di una giustizia equa sotto la legge e, perciò, funzioni come guardiano e interprete della Costituzione”.
Il punto veramente critico è dato da due decisioni che dovrà prendere la Corte: una migliore regolamentazione dell’accesso alle armi e il mantenimento o meno del diritto costituzionale delle donne ad abortire. Secondo Carole Rinville, la maggioranza dei cittadini è a favore di entrambe, ma il timore è che la Corte Suprema segua la già citata parte più conservatrice del Paese.
Ritengo completamente condivisibile la condanna della permissività sul possesso di armi che favorisce gli eccidi che segnano drammaticamente la cronaca americana. L’attuale libertà di possesso di armi non ha nulla a che vedere con la vera libertà ed è un grande ferita alla società americana, non giustificabile con gli interessi della, peraltro comunque fiorente, industria delle armi.
Mi lascia invece estremamente perplesso il parallelo con l’artificiale e artificioso “diritto” all’aborto, tra l’altro logicamente contraddittorio con la posizione sulla liberalizzazione delle armi. Per quale ragione non sarebbe lecito portare armi, che di per sé non significa utilizzarle, e lo sarebbe invece il “diritto” di uccidere l’essere vivente che la donna porta in seno? Si vuole sostituire il diritto di vita e di morte sui figli del Pater familias dell’antica Roma con un moderno uguale diritto della Mater?
Qui non si tratta di diritti della maggioranza o delle minoranze. Nessuna maggioranza può andare contro diritti fondamentali degli esseri umani: Hitler non è assolto dall’avere avuto il voto della maggioranza dei tedeschi di allora, così come l’eventuale maggioranza degli americani a favore dell’aborto non cancellerà il fatto che si tratta dell’uccisione di un proprio figlio nel proprio grembo.
Purtroppo, come in molte altre occasioni della vita umana, vi sono situazioni in cui è difficile giudicare questo fatto dolorosissimo e, per noi cristiani, sono momenti in cui prende pieno valore l’affidarsi al giudizio e alla misericordia di Dio.
Ciò che rimane intollerabile per ogni uomo e donna, qualunque sia il loro credo, è definire l’aborto un “diritto costituzionale”. God save America!
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