Ci sono voluti ben 27 giorni prima che il neoeletto presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, telefonasse al leader israeliano Netanyahu, ritardo che è stato valutato molto negativamente negli ambienti politici di Gerusalemme, un autentico sgarbo. Prima di Israele, infatti, Biden aveva addirittura telefonato ai leader di Corea del Sud, Messico, Cina e Russia. Come mai tanto tempo? Secondo Filippo Landi, ex corrispondente della Rai a Gerusalemme, “va ricordato che Biden era il vicepresidente di Barack Obama con cui Netanyahu ebbe rapporti pessimi e poi l’artefice dell’accordo sul nucleare con l’Iran”. Ma soprattutto, ci ha detto ancora, “Netanyahu era impaziente di ricevere una sorta di benedizione per le elezioni che si terranno il 23 marzo in Israele, cosa che con questo ritardo Biden ha fatto capire di non avere nessuna intenzione di dargli”.



L’ambasciatore israeliano all’Onu nei giorni scorsi ha aspramente criticato Biden per il suo ritardo nel chiamare Netanyahu. Come si spiega, secondo lei, questa lunga attesa?

Ci sono diversi motivi per cui Biden ha aspettato 27 giorni prima di chiamare Netanyahu. Sicuramente sono stati giorni in cui il presidente americano ha esaminato il dossier Medio Oriente e Iran e nei quali ha preso decisioni che non voleva mettere in discussione con lui, di qui il ritardo nella telefonata.



In dettaglio, oltre a questo, quali potrebbero essere stati gli altri motivi?

Il primo sicuramente è stato la nomina a fine gennaio di Robert Malley come nuovo inviato degli Stati Uniti per l’Iran. Malley è stato il grande negoziatore con l’Iran per l’accordo sul nucleare, che poi Trump non esitò a stracciare. Questa era la decisione che premeva a Biden di assumere senza discuterla con Netanyahu. Il secondo motivo è che Netanyahu ha avuto un rapporto pessimo con Obama e nessuno può dimenticare che il vicepresidente che ha condiviso la sua politica e gli scontri difficilissimi con Israele era appunto Biden. Ultimo elemento, l’appoggio esplicito di Netanyahu a Trump, l’avversario diretto di Biden nella corsa alla Casa Bianca.



Quanto conta nei rapporti fra i due paesi il fatto che Netanyahu sia sotto processo e che il prossimo 23 marzo in Israele si terranno nuove elezioni nazionali? Forse Biden sta aspettando di capire se ci sarà un cambio di leadership?

Sicuramente c’era l’interesse di Netanyahu a sentire Biden e a ricevere da lui una sorta di benedizione in vista delle prossime elezioni. Il ritardo dimostra che non c’è nessuna benedizione nei suoi confronti, alla quarta tornata elettorale in due anni. Biden sa come tutti che i sondaggi danno in testa Netanyahu, ma che non ha la maggioranza assoluta, per cui ci si aspettano nuove trattative tra partiti al di fuori del Likud. Per Biden e per tutti sarà interessante vedere la consistenza di questo probabile successo di Netanyahu e che tipo di alleanze, probabilmente ancora con partiti di destra, vorrà fare.

Biden, sembra di capire, non potrà cambiare gli Accordi di Abramo. Questo, in merito alla questione palestinese, che cosa significherà?

Questa è la domanda che si fanno molti politici e diplomatici. Gli Accordi di Abramo sembrano andare in parallelo con una situazione di stagnazione del rapporto tra palestinesi e israeliani. Ricordiamo che si voterà anche in Palestina, a luglio.

Cosa potrà fare Biden?

Innanzitutto, è vittima di un mancato accordo tra Netanyahu e l’ex generale Gantz per un governo di unione nazionale. Gantz garantiva agli Usa la possibilità di una ripresa del rapporto con i palestinesi, la venuta meno dell’intesa non è stata vista bene dall’attuale amministrazione americana. È quasi certo che Biden nella telefonata con Netanyahu abbia ricordato che il capitolo Palestina non può essere considerato archiviato dagli Accordi di Abramo.

Al momento la scelta più forte e decisa assunta da Biden in Medio Oriente va contro l’Arabia Saudita: divieto di vendita di armi e decisione di non parlare d’ora in avanti con il principe ereditario, ma solo con il re in carica. Che importanza ha nello scenario mediorientale?

Biden è stato eletto da una maggioranza di americani al cui interno i cosiddetti liberal e gli intellettuali hanno giocato un grande ruolo, un mondo che non ha dimenticato il brutale assassinio di un intellettuale e giornalista saudita come Khashoggi, che era anche collaboratore del New York Times, stimato difensore dei diritti civili. Trump aveva archiviato questa vicenda e di fatto assolto l’attuale principe ereditario, anche se sembrava il colpevole. Biden fa pesare all’attuale dirigenza saudita questa vicenda. I primi timidi tentativi, come la liberazione dell’attivista delle donne, da parte saudita non sembrano al momento cancellare la vicenda, che invece pesa ancora molto nell’immagine che oggi i sauditi hanno all’interno degli Stati Uniti.

(Paolo Vites)

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