Come in un domino, la decisione presa mercoledì dalla Federal Reserve di alzare i tassi di 75 punti base avrà effetti che attraverseranno l’Atlantico, dove però il quadro economico non è certo florido. Lo stesso commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni ha riconosciuto che “siamo passati da una crescita impetuosa all’orlo della recessione”. Come ricorda Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, la decisione della Fed “era ampiamente attesa, ma è rilevante il fatto che si inserisce in un outlook macroeconomico che vede ancora negli Usa un’inflazione persistente e superiore all’8%, associata a una performance particolarmente favorevole del mercato del lavoro. Basti pensare che nell’ultimo semestre c’è stato un aumento medio di 380mila posti di lavoro al mese, quando normalmente si stima basti un incremento mensile di 50mila unità per mantenere l’equilibrio nel mercato del lavoro. È anche per questo che il mese scorso a Jackson Hole il presidente Powell ha voluto mandare il messaggio molto chiaro che la Fed intende perseguire l’obiettivo della disinflazione a qualsiasi costo. Una posizione reiterata anche nella conferenza stampa di mercoledì”.



Cosa significa a qualsiasi costo?

Che si è anche disposti a tollerare una recessione con un aumento della disoccupazione. Non è casuale che alla Fed non si parli più di “soft landing”, quando fino a poco fa la stessa banca centrale americana ipotizzava di poter fare scendere l’inflazione senza che ciò causasse una recessione. Pertanto nella riunione del Fomc di mercoledì è stato comunicato che ci saranno ulteriori rialzi dei tassi e rimarranno elevati più a lungo di quanto precedentemente atteso.



Quanto questa necessità di disinflazionare l’economia è legata all’avvicinarsi delle elezioni di midterm?

La Fed, come altre banche centrali e istituzioni internazionali, ha riconosciuto in ritardo la spinta al rialzo dei prezzi e la sua persistenza, ma c’è anche da ricordare che il cambio di rotta della Riserva Federale, con una postura anti-inflazionistica più decisa, c’è stato proprio dopo la riconferma dell’incarico a Powell da parte del presidente Biden lo scorso autunno. L’inflazione è un tema dominante negli Stati Uniti, è in primo piano nei notiziari rispetto all’Ucraina, perché si tratta di un rialzo dei prezzi generalizzato che riguarda un paniere molto ampio di beni e servizi e colpisce tutte le famiglie, ma soprattutto quelle a reddito medio basso.



Che rappresentano buona parte dell’elettorato dei Democratici.

Esattamente. Tra l’altro il pacchetto di aiuti varato da Biden ha svolto un ruolo importante nell’alimentare questa fiammata inflazionistica, se non addirittura nel determinarla. Inoltre, si sta radicando nell’elettorato americano la percezione di un’eccessiva timidezza dell’Amministrazione nel gestire vari dossier, anche di politica estera. Basti pensare al ritiro delle truppe dall’Afghanistan la scorsa estate.

Dunque, è molto importante per Biden che l’operazione di disinflazione a opera della Fed abbia successo.

Sì, occorrono però diversi mesi per stabilizzare le aspettative di inflazione in linea rispetto al target del 2%, anche se i primi sono quelli più importanti per alimentare tali aspettative. Inoltre, questa politica disinflazionistica molto probabilmente determinerà un aumento del tasso di disoccupazione, coerentemente con la possibilità che l’economia entri in recessione. Non va tra l’altro dimenticato che gli Stati Uniti sono già in recessione tecnica avendo conseguito due trimestri consecutivi di contrazione del Pil dall’inizio dell’anno.

Quanto questa postura della Fed potrà influire sulle scelte della Bce?

Mentre negli Stati Uniti l’inflazione ha una dinamica endogena, nell’Eurozona è dovuta ai rincari dei prezzi delle materie prime energetiche, che a loro volta hanno trascinato quelli di altre componenti del paniere. Nonostante questa dinamica differente, c’è stato finora un comportamento per alcuni aspetti simile da parte delle due banche centrali, che rischia di creare incertezza.

Da che punto di vista?

È importante che la banca centrale non diventi essa stessa fattore di incertezza per il mercato. La Fed nel 2021 aveva veicolato il messaggio che i tassi sarebbero rimasti bassi per un altro anno, ma così non è stato. A luglio aveva indicato che avrebbe rallentato il ritmo e l’entità di aumento dei tassi di interesse, ma come abbiamo visto ciò non è avvenuto. La Bce è partita più tardi rispetto alla Fed, e questo riflette una maggiore prudenza, ma aveva inizialmente aveva veicolato l’aspettativa di un rialzo dello 0,25% a luglio, mentre poi è stato dello 0,5%, e successivamente di un altro incremento a settembre massimo dello 0,5%, che è stato poi dello 0,75%. Bisognerebbe che, per quanto possibile, le banche centrali veicolino informazioni che non creino confusione e incertezza per il mercato.

Sembra però inevitabile che la Bce aumenti i tassi il mese prossimo.

Sì, un ulteriore rialzo è estremamente probabile, praticamente certo, ma bisognerà capire di quale entità. L’inasprimento della postura della Fed galvanizza quanti all’interno del Consiglio direttivo della Bce spingono perché vi sia un ulteriore e assai più forte inasprimento della stance di politica monetaria. Bisogna, però, essere consapevoli non solo della diversa dinamica inflazionistica, ma anche del fatto che l’economia dell’Eurozona è molto più fragile di quella degli Stati Uniti. In Germania c’è un progressivo e inesorabile deterioramento del quadro congiunturale che cela una dinamica strutturale poiché il modello di sviluppo della sua manifattura, come ho spiegato in una precedente intervista, si è sgretolato negli ultimi mesi. Peraltro, una politica fiscale più espansiva non si presenta come un’opzione agevole per Berlino, in quanto l’inflazione è molto alta e le preferenze dell’elettorato privano il Governo di questo importante strumento. E, se entra in recessione l’economia tedesca, è difficile ipotizzare che quelle più fragili degli altri Paesi europei non facciano altrettanto.

Tra l’altro, come si è capito dal discorso sullo stato dell’Unione di Ursula von der Leyen, non sembra essere alle porte uno strumento di politica fiscale europea per fronteggiare la crisi energetica, come è invece avvenuto dopo lo scoppio della pandemia.

Esattamente. È difficile capire anche chi potrebbe finanziare uno strumento di questo tipo, visto che la Germania dovrebbe esserne uno dei principali beneficiari.

La decisione sui tassi da parte della Bce è attesa a fine ottobre, un momento delicato per l’Italia dal punto di vista politico, visto che verosimilmente ci si troverebbe nelle settimane chiave per la formazione di un nuovo Governo.

La decisione su un rialzo dei tassi mi sembra già ampiamente scontata. L’elemento da considerare sarà rappresentato invece da altri aspetti della politica monetaria, in particolare le prospettive che ci sono sui programmi di reinvestimento dei titoli di stato acquistati tramite il Pepp e l’App. Ad agosto Isabel Schnabel aveva già posto un punto interrogativo rispetto alla loro prosecuzione, confermato da Christine Lagarde in occasione della conferenza stampa seguita alla riunione del Consiglio direttivo all’inizio di settembre. Sarà, quindi, importante capire se il mese prossimo ci saranno delle evoluzioni che porteranno a ridimensionare o addirittura ad abbreviare il periodo dell’ambito del quale la Bce continuerà a reinvestire il montante dei titoli che giungono a scadenza.

Sarà questo l’aspetto più importante per l’Italia?

Sì, perché avendo un’enorme mole di debito pubblico è più sensibile non solo e non tanto alla variazione dei tassi di interesse, ma anche alle decisioni legate agli interventi di acquisto che la Bce compie nel mercato secondario dei titoli di stato per ottimizzare la trasmissione della politica monetaria, che chiaramente rappresentano per il nostro Paese una variabile strategica da monitorare con estrema attenzione.

(Lorenzo Torrisi)

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