La Russia e la Cina hanno esteso a macchia d’olio la loro influenza in Africa. Ora gli USA cercano di recuperare faticosamente il terreno perduto. Il primo tassello di questo difficile percorso, spiega Marco Di Liddo, direttore del CeSI (Centro Studi Internazionali), è il rafforzamento degli accordi bilaterali con il Kenya. I due presidenti, l’americano Joe Biden e il keniota William Ruto, hanno rilanciato una collaborazione presentata enfaticamente dagli Stati Uniti come il primo nucleo di una possibile coalizione di nazioni che uniscono la democrazia a programmi di sviluppo sostenibile. Per ora, in realtà, c’è solo il patto USA-Kenya, che unisce agli affari relativi alla transizione energetica e digitale l’interesse per un’area particolarmente tormentata come quella del Corno d’Africa. Attraverso questo strumento, gli americani sperano di presentare un nuovo modello di sviluppo che attiri l’attenzione anche di altri Paesi, creando qualche difficoltà alla presenza sempre più massiccia della Cina, vero grande competitore degli USA.



Qual è il senso di questo accordo tra gli americani e i kenioti, qual è il vero obiettivo?

Tradizionalmente la strategia americana in Africa ha avuto come obiettivo principale il contrasto al terrorismo, soprattutto dopo l’11 settembre 2001 e il crollo delle Torri Gemelle. Una strategia che ha sempre funzionato poco, patendo la narrazione della decolonizzazione e del socialismo reale di URSS e Cina. Questa incapacità americana di agire nel continente si è trascinata fino ad ora. Adesso sono subentrate due nuove necessità: il contrasto proprio alla Russia e alla Cina. Il problema è che, partendo da posizioni così arretrate, è difficile definire una strategia vincente. Occorre trovare Paesi in cui ci sono ancora delle opportunità. Il Kenya è uno di questi: ha un rapporto molto conflittuale con l’Etiopia, che nel Corno d’Africa è uno dei principali referenti cinesi.



L’accordo con il Kenya, insomma, è principalmente in funzione anticinese?

Parlerei di una duplice funzione: cercare una testa di ponte americana nell’Africa orientale per provare a creare un asse di contrasto alla Cina.

Nell’accordo tra i due Paesi si parla di transizione energetica e digitale: l’idea è di una collaborazione anche dal punto di vista economico. L’approccio degli Stati Uniti, quindi, è cambiato?

Sulla carta sì, poi bisognerà vedere quello che produrrà in concreto. Il Kenya è un polo di innovazione in Africa orientale, soprattutto a Nairobi, dove c’è un’attenzione particolare all’economia legata alla digitalizzazione e alla transizione energetica. Il Paese ha pure un enorme potenziale non sfruttato dal punto di vista agricolo, soffre il cambiamento climatico, ma ha investito molto nell’energia green. L’idea è di approcciarlo con l’intero ventaglio degli strumenti a disposizione: se si vuole contrastare la Cina in Africa, bisogna presentarsi con un pacchetto completo, con proposte dal punto di vista politico, economico, ma anche securitario.



Il progetto, così come è stato presentato, è di realizzare, con l’impegno del FMI e della Banca Mondiale, un punto di riferimento per le democrazie, una coalizione di nazioni che punti allo sviluppo dell’Africa. C’è effettivamente la possibilità di coinvolgere in questo progetto altri Paesi?

La possibilità c’è, però non è così semplice da realizzare. In molti Paesi africani la presenza della Cina è capillare, in altri ancora i russi guadagnano posizioni: gli USA devono cercare di bilanciare questa presenza, ma non si crea facilmente un pool di nazioni in grado di rappresentare un’alternativa ai vantaggi (soprattutto per le élites) che garantiscono Cina e Russia.

Il Kenya ha già legami con altri Paesi dell’area che si possono spendere per allargare questo progetto?

Il Kenya fa parte dell’IGAD (Intergovernmental Authority on Development), che è il corrispondente in questa zona dell’ECOWAS, la comunità degli Stati dell’Africa occidentale, ma l’IGAD è una struttura con una forte influenza etiope. Il Kenya è un po’ un battitore libero, anche per la sua posizione geografica. Riesce a parlare con l’Africa centrale e con quella orientale, è coinvolto nel processo di stabilizzazione della Somalia, ma è un’isola filo-occidentale circondata da un mare di Paesi che sono più vicini alla Cina.

Rischiano di rimanere isolati anche in questa loro iniziativa con gli USA?

Quello no. Gli africani sono molto più pragmatici e multilaterali di noi perché la natura dei problemi locali glielo impone. Quella del Kenya è una scelta di campo che, qualora produca effetti concreti, può spingere anche altri Paesi a vedere con maggiore interesse la partnership con Washington. Però non è un passaggio immediato. La Cina qui è forte.

L’intesa Biden-Ruto riguarda anche la difesa: il Kenya viene definito un alleato di primaria importanza al di fuori della NATO. L’alleanza tra i due Paesi si deve sviluppare anche militarmente?

Sicuramente ci sono altri Paesi al di fuori della NATO con cui gli Stati Uniti hanno relazioni più strutturate rispetto al Kenya. Siamo nel contesto di una cooperazione militare, orientata anche alla soluzione dei problemi del Corno d’Africa, anche se i conflitti africani è quasi impossibile che possano avere una soluzione solo militare. La maggior parte delle guerre sono contro movimenti armati o vedono la presenza di attori non convenzionali che non possono essere battuti solo militarmente. Ci vuole un’azione politica e sociale sul territorio, perché altrimenti continueranno a riprendere vigore.

Questa iniziativa degli USA può coinvolgere anche qualche altro Paese in Occidente?

Sono da soli, la politica americana ed europea ha tipologie e metodologie di intervento diverse. Ci possono essere aree di convergenza, ma questa è un’azione prettamente americana.

(Paolo Rossetti)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI