Donald Trump si è sempre sottratto ai paragoni con Silvio Berlusconi, ma non li ha mai smentiti. E viceversa: il Cavaliere si è sempre lasciato additare volentieri come “maestro” di The Donald. Entrambi tycoon mediatici, “maschi alfa” con seconde o terze mogli da copertina, mattatori in metropoli pulsanti di miliardi, fra alta finanza e grandi affari immobiliari. Entrambi campioni di una destra occidentale vincente contro l’egemonia del politicamente corretto. Ma altresì sempre in odore di rapporti obliqui con la Russia di Putin.
Berlusconi, certamente, è riuscito a farsi eleggere Premier italiano un quarto di secolo prima che Trump entrasse addirittura alla Casa Bianca (quest’ultimo ha invece acquistato la reggia di Mar-a-Lago prima che il Cavaliere diventasse proprietario di Villa Certosa). Conta molto, d’altronde, che ambedue sono stati costantemente inseguiti dai magistrati: invariabilmente sospettati – in Italia come negli States – di muoversi in sintonia con i rispettivi avversari politici e finanziari.
Nei primi giorni del 2023, una volta di più, The Donald sembra non sfuggire all'”archetipo” del Cavaliere italiano. La mossa dell’ex Presidente – che l’altro ieri ha sabotato attraverso i congressmen suoi fedeli l’elezione di Kevin McCarthy a Speaker repubblicano alla Camera neo-eletta dal voto midterm – ha shoccato Washington: ma probabilmente non gli osservatori politici italiani, lungamente allenati allo stile spregiudicato e spericolato del Cavaliere. Il quale – undici anni dopo essere stato estromesso da palazzo Chigi e quindi dichiarato ineleggibile per via giudiziaria – è stato appena rieletto al Senato: accampando non infondate pretese sulla presidenza. È tuttora proprietario o socio di Mediaset (lungamente assediata da Vivendi), Mondadori, Mediolanum. Non da ultimo: può ancora permettersi qualche libertà di manovra verso la Premier Giorgia Meloni nella maggioranza di centrodestra (ma forse anche oltre: verso tutti i soggetti e le forze – a cominciare dal Quirinale – che non possono permettersi la caduta del Governo).
È noto come il Cavaliere sia sopravvissuto fino a oggi, a differenza di tutti gli altri leader della Seconda Repubblica (e perfino della post-Seconda). Ha smesso di cercare una rivincita diretta e ha utilizzato il suo persistente peso politico (e non solo politico) per difendere in via stretta la propria posizione (personale, finanziaria, politica). Esemplare il “prestito” dei senatori di Ala (formalmente fuoriusciti da Forza Italia) alla non-maggioranza di centro-sinistra uscita dal voto 2013. Su quei voti tre Premier Pd hanno potuto reggere un’intera legislatura. Con il secondo – Matteo Renzi – Berlusconi strinse un vero e proprio “patto” (battezzato “del Nazareno”): che non si è sciolto neppure con l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale nel 2015. Al contrario: il Cavaliere ha mostrato di saper sacrificare senza problemi un proprio candidato alla presidenza della Repubblica – Giuliano Amato – consolidando un asse con Renzi, che ha iniziato allora a scardinare il Pd e che dura tuttora. Ma già nell’autunno di fuoco del 2011, Berlusconi non aveva avuto dubbi fra l’insistere con una maggioranza parlamentare ancora intatta – magari promuovendo Giulio Tremonti a Premier – e il concedere a Giorgio Napolitano “l’operazione Monti” (il rettore della Bocconi era stato nominato Commissario Ue dal Berlusconi-1: esattamente come Mario Draghi è diventato governatore della Banca d’Italia e poi presidente della Bce su indicazione del Berlusconi 2&3 ed è stato sostenuto infine da Fi come Premier istituzionale).
Visto da Roma, perché stupirsi se Trump ha voluto semidistruggere in modo così drammatico e plateale o “suoi” Repubblicani? Certamente ha vanificato la vittoria già piccola-piccola del GOP all’ultimo midterm (in parte determinata alla crescente conflittualità interna fra il partito e i trumpiani irriducibili). Ma il risultato più evidente è il caos dei repubblicani d’Oltreoceano quando ormai è prossima l’apertura della lunghissima campagna verso le presidenziali 2024. Quando è ormai sempre più probabile che Joe Biden – dato per spacciato due mesi fa – si ricandidi: forte anche di una situazione più favorevole sia sul versante geopolitico (Ucraina e Taiwan), sia su quello interno (dati macro e inflazione).
Riuscirà Trump a evitare l’incriminazione – o una successiva condanna – come mandante dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021? Riuscirà a sfuggire alle imputazioni di natura fiscale e finanziaria mossegli dai magistrati di Manhattan? Riuscirà a scrollarsi di dosso le accuse di traffico di documenti riservati dopo il raid dell’Fbi a Mar-a-lago? Riuscirà a rincorrere il Berlusconi odierno (ammesso che che sia questo l’obiettivo di The Donald)?
Chissà come potrebbe essere chiamata in America questa parvenza di patto fra Trump e Biden (cioè sempre, almeno in parte, Barack Obama).
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