DIARIO DA MINNEAPOLIS – Stiamo aspettando il verdetto. Tarda, chissà perché. Forse perché, qualunque esso sia, dividerà ancor di più quel che è già diviso. I giurati hanno terminato il loro lavoro. La parte più difficile del loro compito, la sentenza, quella che segna il futuro dell’imputato, ma anche l’anima di quelli che decidono. Tre i capi di imputazione: omicidio preterintenzionale, omicidio di terzo grado, causato perpetrando atti violenti frutto di una mente depravata, omicidio colposo di secondo grado.
Ecco, arriva il verdetto: colpevole su tutti e tre i capi di imputazione. “Justice is served”, come si dice qua, giustizia è fatta.
Si dice anche che il destino di Derek Chauvin era nelle mani dei giurati. Come quello di George Floyd è finito tra le mani di Chauvin. Si dice così, tutti i giornali e giornalisti in questi tempi hanno scritto e detto così. Si dice, ma si può dire? Può il destino di un uomo essere messo nelle mani di un altro uomo?
Avranno discusso animatamente quei dodici, magari ferocemente. Come gli “angry men” del film di Sidney Lumet. Lottando con i sentimenti contrastanti che si agitano in cuore, lottando tra quel che hanno capito di tutto questo processo e quello che il mondo là fuori si aspettava da loro. Penso che oggi quei dodici, almeno per un attimo, abbiano sentito addosso tutto il peso della umana incapacità di fare giustizia. E dell’essere comunque chiamati a farla. In qualche modo.
Cos’era sotto processo a Minneapolis? Chi è stato condannato? Chauvin e quel che ha fatto a Floyd? Certamente. Chauvin ha fatto del male e ne paga il prezzo. Ma forse sul banco degli imputati c’era tutta la polizia, o forse addirittura tutto il nostro sistema, tutta l’America. E con l’America l’umanità di ciascuno di noi, protagonisti distratti e disimpegnati di questo tempo pieno di solitudine, prepotenza e rancore.
Fuori dalla Corte una folla, in verità non grande ed non agitata come ci si sarebbe potuto aspettare, non quello scenario prebellico che l’arrivo silenzioso della National Guard, nascosta ma pronta ad intervenire, aveva fatto presagire.
Una folla di manifestanti attorno alla Corte e visibile soddisfazione, commozione, festeggiamenti per l’esito del processo. A questo si accompagna la parata delle autorità – bianche – del sistema di Giustizia del Minnesota. Si avvicendano al podio glorificando quest’iter processuale. È la conclusione di giornate in cui tante parole sono state gettate ai quattro venti, parole incendiarie come bombe Molotov. Parole pericolose come quelle pronunciate dall’anziana e battagliera Maxine Waters, deputata democratica per la California: “Ci aspettiamo un verdetto che dica ‘Colpevole! Colpevole! Colpevole!’”.
Ebbene, questo è il verdetto e questa la celebrazione per le vie di Minneapolis e chissà, nei giorni a venire nel resto del paese. Ma non illudiamoci: qualunque essa sia, una sentenza non potrà mai avere il sapore della Giustizia. Magari, non mi stancherò mai di dirlo, avrà quello della vendetta, della rivalsa, ma sarà un sapore aspro e amaro come se la bocca si riempisse di sangue, sudore e lacrime. C’è davvero qualcosa da festeggiare con un uomo morto ed uno che lo ha ucciso distruggendo così due vite? Credo che sia per questo che Biden vuole rivolgersi alla Nazione adesso che il verdetto è stato annunciato. Lo farà. Che valore e che forza avranno le sue parole? Serviranno a sanare qualcosa? Vedremo. Vi dirò domani.
Ecco, la nostra società attraverso quella giuria ha espresso il suo giudizio. Abbiamo condannato, il massimo possibile della pena. Andava fatto ed è stato fatto. Adesso possiamo spingerci oltre ed abolire questo e quello, mille altre cose, così come abbiamo abolito la schiavitù tanto, tanto tempo fa. L’abbiamo abolita tanto tempo fa ed oggi ci troviamo con George Floyd, Daunte Wright e troppi altri. Perché non c’è nulla che legge e tribunali possano fare per abolire l’estraneità, nulla che possano fare per sconfiggere l’inimicizia, nulla che una legge o un tribunale possano fare per farci guardare l’altro riconoscendolo, affermandolo, per imporre una “ragione permanente nel guardare l’altro in maniera fraterna”.
Non abbiamo bisogno di bianchi o neri, abbiamo bisogno di madri e padri per imparare a vivere come fratelli.
God Bless America!
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