Nella prima conferenza stampa dall’insediamento, l’attesa più lunga dalla Prima guerra mondiale, Biden ha promesso che per il 4 luglio l’America potrà tornare alla “quasi normalità”. L’obiettivo dipenderà dal successo della campagna vaccinale per cui il Presidente stima che entro il 1 maggio ogni americano sarà nella condizione di vaccinarsi. Secondo le stime il 4 luglio sarà vaccinato il 70% degli americani e per fine agosto la percentuale arriverà al 90%.
Gli Stati Uniti sono in cima alla lista dei Paesi con il più alto numero di persone vaccinate in proporzione alla popolazione con una percentuale vicina al 20% inferiore rispetto alle maggiori economie occidentali solo a quella del Regno Unito. L’obiettivo di riapertura dell’America è di qualche settimana successivo a quello del Regno Unito e le scadenze sono quindi coerenti con la velocità della campagna vaccinale.
Gli americani con ogni probabilità crederanno al programma perché le scuole hanno già riaperto in presenza e dal weekend scorso, per esempio, a New York hanno riaperto i cinema anche se con un limite iniziale alla capacità del 25%. Ieri il New York Times ci avvisava che circa 30 milioni di dosi del vaccino AstraZeneca aspettano nei magazzini della società in Ohio in attesa dell’approvazione del Governo americano. Il giornale si chiedeva se queste dosi non potrebbero essere esportate in quei Paesi che invece hanno già approvato il vaccino. Sempre questa settimana l’amministrazione americana ha prenotato altri 100 milioni di vaccini Johnson & Johnson. Senza dilungarci, emerge chiaramente che l’America non ha un problema di approvvigionamento dei vaccini e quindi si possono nutrire speranze sul programma di riapertura.
Sulle riaperture si gioca il destino del Pil del 2021 ma non solo. Chi riapre per primo ha un ovvio vantaggio sulla competizione e il Pil “perso”, contrariamente alla narrazione attuale, è perso per sempre. I guadagni che non si sono fatti nel 2021 non tornano perché, banalmente, nel 2022 non si potrà andare a sciare per tre mesi per recuperare le settimane bianche perse nel 2019 e nel 2020. Le imprese che perdono il loro mercato interno, gelato dai lockdown, possono solo sperare nelle esportazioni e fronteggiano la concorrenza di imprese più solide e con performance migliori.
C’è una questione economica, ma c’è anche una questione di rapporti tra macro aree globali che in una fase di guerre commerciali e tensioni tra blocchi diventa decisiva. Se un blocco rimane indietro e tiene la sua economia domestica chiusa per sei mesi aggiuntivi accumula un ritardo e una dipendenza che non potrà non contare sui tavoli delle trattative. La sfida “economica” tra i blocchi “politici” si gioca tutta sulla velocità e sull’ampiezza delle riapertura; è una “guerra” a cui contribuisce l’informazione che offusca le aperture degli altri sia dentro l’Europa, sia fuori. I dati sul traffico, sui consumi elettrici, sugli spostamenti all’interno dei Paesi membri dell’euro e su quelli esterni raccontano una realtà molto più completa di una certa aneddotica con cui si cerca di diffondere un messaggio di “mal comune mezzo gaudio” che non è sostenibile se appena appena si scava nei dati veri.
Quanti mesi di ritardo si possono sopportare prima che la divaricazione delle performance economiche diventi troppo penalizzante? Mentre settimana scorsa l’America cominciava a riaprire a queste latitudini cominciavano le chiusure. È già un ritardo “trimestrale”. Non è affatto poco.
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