Un tempo era un oscuro argomento accademico, ora la teoria critica della razza (Critical Racial Theory, CRT) è sulla bocca di tutti gli opinionisti e politici americani, diventando uno dei temi più scottanti. Ciò che la rende divisiva è il fatto che non si è d’accordo neppure sul suo significato e c’è il timore è che il razzismo venga coltivato proprio nelle sedi dove invece bisognerebbe imparare l’esatto opposto. I sostenitori affermano che si tratta solo di comprendere il razzismo e combatterlo, i detrattori invece sostengono che sia antiamericana, razzista e divisiva. Si è così arrivati ad un punto di scontro nelle scuole americane, tanto che alcune legislature statali si sono mosse per vietarne l’insegnamento.
Partiamo da una premessa. La teoria critica della razza è una teoria giuridica nata nelle facoltà di legge negli anni ’70 e ’80 per spiegare la persistenza delle diseguaglianze razziali dopo l’approvazione del Civil Rights Act nel 1964. Questa teoria, sviluppata dall’ex professore di diritto ad Harvard Derrick Bell e da altri studiosi, esamina il modo in cui il razzismo sia stato incorporato nella legge americana e in altre istituzioni moderne, garantendo il vantaggio dei bianchi sulle minoranze etniche.
PERCHÉ SI RIPARLA DI TEORIA CRITICA DELLA RAZZA IN USA
Rimasta confinata nelle pubblicazioni accademiche, la teoria critica della razza per oltre quarant’anni non è stato un tema dibattuto pubblicamente. In molti ne ignoravano addirittura l’esistenza. Le cose sono cambiate, però, dall’uccisione di George Floyd, quando sono cominciati ad entrare nel dibattito concetti come “razzismo sistemico” e “giustizia razziale”. La teoria critica della razza è stata quindi usata come risposta alle proteste e battaglie di Black Lives Matter. Più la sinistra progressista alzava la voce contro il razzismo sistemico della società americana, più la destra contrattaccava con la teoria critica della razza. Lo ha fatto in particolare l’attivista conservatore Christopher Rufo, usandola per criticare l’introduzione di moduli antirazzisti in alcuni ambiti formativi. La questione, dunque, è a dir poco controversa. Infatti, c’è ad esempio un ampio e animato dibattito sullo spazio che la scuola Usa riserva allo studio e alla analisi delle radici storico-culturali del razzismo.
I LIMITI DELLA TEORIA CRITICA DELLA RAZZA
Nelle scuole americane gli insegnanti di materie come storia, educazione civica e studi sociali prendono spunti da fatti di cronaca per avviare approfondimenti e riflessioni, e nelle loro spiegazioni usano spesso modelli ricavati dalla teoria critica della razza, secondo cui il razzismo non è il prodotto di errori e pregiudizi individuali, ma un costrutto sociale, qualcosa che è parte dei sistemi giuridici e nelle politiche. C’è però chi negli Stati Uniti ritiene che questa teoria sia distruttiva, perché conduce a dinamiche negative, dividendo le persone in oppressi e oppressori. Portare questi temi in classe allora è un bene o un male? Stando a quanto riportato da The Economist, che cita lo studio Understanding America, la maggior parte dei genitori democratici ritiene che sia importante che i bambini conoscano il razzismo, mentre meno della metà dei genitori repubblicani la pensano così. Se però la teoria critica della razza si limitasse a identificare le discriminazioni storiche e attuali per assicurarsi che le persone emarginate vengano integrate nella società, nessuno avrebbe nulla da ridire. Eppure, ci sono critiche. Il problema principale è che da un punto di vista metodologico non è attrezzata per risolvere i problemi vuole risolvere. La controversia potrebbe essere risolta, ad esempio, riformulando tale teoria per renderla in primis comprensibile ai non accademici, chiarendo poi che il nodo non è condannare i bianchi, ma apprendere le lezioni dal passato per cambiare il sistema che genera tali contraddizioni.