Lo sblocco al Congresso Usa dello stallo sul tetto all’indebitamento federale è stato commentato con toni non univoci. Generalmente come “media vittoria” (importante ma sofferta) del Presidente Joe Biden e come “buon pareggio” dell’opposizione repubblicana, che alla Camera è oggi in maggioranza. Il compromesso raggiunto all’ultimo istante prima di un possibile, clamoroso default statunitense ha naturalmente tranquillizzato i mercati. Sul piano politico il lungo braccio di ferro in Campidoglio ha invece reso ancor più fluide le prospettive della corsa verso le presidenziali del 2024. L’esito numerico del voto dei Rappresentanti è stato di per sé significativo.
L’autorizzazione biennale a sfondare il tetto all’indebitamento – bilanciata da impegni di contenimento della spesa da parte dell’Amministrazione Biden – è stata votata da 314 deputati, mentre 117 si sono espressi in modo contrario (il plenum nominale era di 434). In dettaglio: 149 repubblicani (della maggioranza pilotata dallo Speaker Kevin McCarthy) si sono uniti a 165 democratici nel dare via libera a un “bill” presentato dalla Casa Bianca. Tra le fila dei “no” si sono invece contati 71 repubblicani e 46 “dem”. Sia Biden che McCarthy non hanno esitato ad applicare la classica etichetta del voto “bipartisan”. Ma è stato evidente a tutti che di fronte a un passaggio cruciale – più importante ancora di una Legge di bilancio – in un’aula rigorosamente bipartitica si sono formate una maggioranza trasversale (72%) e una minoranza per nulla marginale e altrettanto ramificata fra i due partiti. Anche a Washington sembra aver preso forma una sorta di “Grande Coalizione”: inedita per gli Usa.
Della “cosa” è parte la maggioranza dei “dem”, che sostiene il Presidente: e che con ogni evidenza ha così avallato il preannuncio di ricandidatura per il 2024. Dall’altra parte si sono contati i repubblicani moderati che hanno certamente battagliato con la Casa Bianca sulle condizioni di una virtuale “finanza di guerra”, ma che non avrebbero mai fatto andare il Paese in default – “in tempo di guerra” – per sabotare sul nascere la ricandidatura di un Presidente “dem”. Sono d’altronde gli stessi repubblicani “classici” che sono poco o per nulla convinti della ricandidatura di Donald Trump e probabilmente anche della sortita precoce del governatore della Florida Ron De Santis.
Se il Presidente venisse eletto dal Congresso – e non attraverso voto popolare con il rinnovo dell’intera Camera e di un terzo del Senato – oggi vi sarebbero buone probabilità che la Grande Coalizione nata sul tetto al debito confermerebbe Biden per un quadriennio. E potrebbe fare a meno anche del pattuglione di democratici “radicali” che hanno visto invece nel patteggiamento con i repubblicani una prova di debolezza politica e – forse peggio – un inaccettabile cedimento su vari fronti di politica economica e sociale. Per i “dem” come Bernie Sanders o Alexandra Ocasio-Cortes, Biden avrebbe dovuto difendere tutti i propri programmi (ad esempio, l’alleggerimento dei debiti universitari accumulati dai laureati) facendo quadrare i conti con un aumento delle tasse, principalmente sui “ricchi”, cioè sul business. L’ala estrema dei “dem” ha comunque colto l’occasione per ufficializzare la propria freddezza sull’ipotesi di secondo mandato al Presidente in carica.
La Grande Coalizione di Washington non sarebbe tuttavia maturata senza il cambiamento strategico cui Biden è stato obbligato dalla crisi geopolitica. Se la reazione “muscolare” verso Russia e Cina ha toccato le corde di vasti settori repubblicani, la nuova politica industriale stile New Deal ha certamente suscitato l’interesse del big business. I sussidi alle imprese impegnate nella transizione energetica (pur travestiti da “contrasto all’inflazione”) e nella rilocalizzazione della produzione di microchip sono misure pro-business chiaramente gradite ai repubblicani centristi tanto quanto sgradite ai “dem di sinistra” e ai repubblicani ultraliberisti. Idem per le misure di politica sociale – soprattutto nella sanità e nell’education – che assai saranno verosimilmente raffreddate ma non drasticamente.
È ancora presto per capire se un format politico inedito per gli Usa potrà tenere o addirittura rafforzarsi nel prossimi 16 mesi. Il gioco congiunto della crisi ucraina e dell’irriducibilità di Trump sembra d’altronde costituire una cornice unica favorevole. E sviluppi della Grande Coalizione in Usa avrebbero impatti prevedibili anche nell’Ue: dove invece le coalizioni larghe hanno radici in numerosi sistemi-Paese e dove si vota fra 12 mesi per rinnovare l’euro-parlamento e quindi la Commissione di Bruxelles.
Se i macro-fattori sono gli stessi – la risposta periodo medio-lungo di lungo a Russia e Cina e la difesa della “civiltà democratica” – sembra allinearsi anche l’opportunità di aggiornare il Recovery Fund su nuovi obiettivi e con nuove macro-scelte su scala continentale. La transizione energetica, anzitutto, ha assunto contorni nuovi in chiave di indipendenza (con la riapertura al nucleare); e l’aumento delle spese per la difesa ha scalato l’agenda della priorità. Non da ultimo: se gli Usa hanno sospeso in via eccezionale il loro principale “parametro economico-finanziario”, l’Ue si accinge a rivedere e ripristinare i parametri di Maastricht, dopo la sospensione-Covid.
È evidente che anche fra Strasburgo e Bruxelles una Grande Coalizione sarà molto utile, se non addirittura necessaria. È però improbabile che resti quella “rituale/istituzionale” in vigore da un quarantennio fra le tre forze europeiste storiche (popolari, socialdemocratici e liberali). La ragione principale è che i numeri da tempo non sono più indiscutibili e il prossimo voto potrebbe accentuare la tendenza: la crescita dei Verdi (se sarà confermata dal voto 2024) e quella attesa dei conservatori di Ecr hanno aggiunto presenze reali nel quadro politico Ue, in cui invece le sinistre appiano particolarmente in affanno. È comunque improbabile tutti questi partiti possano infine ritrovarsi in un unico “modulo parlamentare”, anche se fissato da un’agenda e non più ancorato solo a un europeismo di principio. Il recentissimo voto dell’europarlamento sulla possibilità di dirottare fondi Recovery sulla produzione di munizioni è già stato significativo, con uno specifico riflesso italiano: la delegazione Pd (partito da cui è uscito in passato un Presidente della Commissione come Romano Prodi) si è frantumato. Invece Ecr – presieduto dal premier italiano Giorgia Meloni – ha votato a favore, pur non facendo parte della “coalizione” che nel 2019 ha dato fiducia alla commissione von der Leyen. Allora, fra l’altro, i voti pentastellati italiani (pilotati dal Premier Giuseppe Conte sul crinale del ribaltone italiano) furono preziosi a Strasburgo: oggi sono irrilevanti e – se vi saranno ancora eurodeputati M5S – saranno prevedibilmente all’opposizione della futura Grande euro-Coalizione.
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