Dopo l’abbandono dell’Afghanistan, è previsto per la fine dell’anno in corso il completo ritiro delle ultime forze militari americane ancora in Iraq. Presenti dal 2003, quando fu scatenata l’invasione che pose fine al regime di Saddam Hussein, oggi le truppe americane sono ridotte a 2.500 uomini. Ne rimarranno alcune centinaia, che però, secondo gli accordi già presi tra Joe Biden e il primo ministro iracheno Mustafa al-Kadhimi, “non avranno più un ruolo da combattimento, ma solo di addestramento”. Aumenterà invece la presenza della Nato, che nei prossimi mesi sarà a guida italiana, sempre con lo scopo ufficiale di addestrare l’esercito iracheno. Il timore che prevale e la domanda che tutti si fanno è se non si assisterà a un altro “caso Afghanistan”, al dissolvimento cioè di truppe addestrate e armate da anni, visto che in Iraq da tempo è in corso un sanguinoso scontro con milizie sciite filo-iraniane e il ritorno dell’Isis.



Secondo il generale Carlo Jeanesperto di strategia, docente e opinionista,“un esercito non è qualcosa che cade dall’alto, dipende dalla stabilità politica del proprio paese e quella irachena è sicuramente maggiore di quanto lo fosse stata quella afghana, visto che lì il presidente è stato il primo a fuggire”. Aleggia, tuttavia, come in Afghanistan l’ombra dell’Isis, tornato attivo dopo la caduta del califfato islamico.



Gli americani dopo l’Afghanistan si apprestano nei prossimi mesi a lasciare anche l’Iraq. Assisteremo a quello che abbiamo già visto o l’esercito iracheno si dimostrerà più saldo di quello afghano?

Un esercito non è appeso nel vuoto, dipende dal potere politico e quello iracheno è molto più solido di quanto fosse in Afghanistan. L’esercito teoricamente dovrebbe tenere. Sicuramente è diviso fra nazionalisti sunniti e sciiti e altre formazioni che sono anti-iraniane. Ci sono poi milizie filo-Teheran. Bisogna tener conto che gli iracheni sono arabi, mentre l’influsso iraniano è di una etnia completamente differente.



A proposito di Iran, approfitterà del ritiro americano per destabilizzare l’Iraq come sta cercando di fare da tempo?

Dipende molto dalla politica interna iraniana. Il fatto che al potere a Teheran ci siano elementi radicali potrebbe facilitare un tentativo di destabilizzazione dell’Iraq. Però gli iraniani devono tener conto che nella guerra fra i due paesi negli anni 80 gli sciiti iracheni hanno combattuto per l’Iraq, non hanno sostenuto l’Iran.

Sono rimasti dunque fedeli al proprio paese?

Sì, il problema di un esercito è legato alla tenuta del potere politico. Se il presidente scappa con la cassa, l’esercito sbanda, così come è capitato in Afghanistan.

In Afghanistan, poi, è stata sottovalutata la presenza dell’Isis, non crede?

No, non è vero, ci sono sempre state azioni contro Isis-K e altre formazioni radicali islamiche, ad esempio quelle uzbeke, che fanno parte del movimento uzbeko islamista, e gli elementi uiguri che sono molto forti. Dall’Iraq queste formazioni sono intervenute anche in Siria, in particolare a Idlib.

Infatti in Iraq, nonostante la caduta del califfato, si è assistito a una ripresa degli attacchi da parte dell’Isis.

Va però detto che le contrapposizioni fra Iraq e Iran, quando si trovano di fronte all’Isis, cadono. I due paesi nei confronti dell’Isis sono decisamente alleati e poi c’è il fattore curdo, dove i peshmerga danno il loro contributo in questa lotta.

La Nato aumenterà invece la sua presenza con lo scopo ufficiale di addestrare le truppe irachene e collaborare con l’intelligence. Nei prossimi mesi la guida passerà all’Italia. Come giudica questa missione?

È chiaro che non è una missione umanitaria né di peace keeping, di distanziamento fra due eserciti. Si tratta di operazioni di controllo del territorio e di addestramento e ciò comporta anche l’impiego della forza militare. Sarà sicuramente una missione a rischio e la guida italiana rappresenta una grossa sfida, ma è quanto ci è stato chiesto dall’Iraq stesso.

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