Il presidente Trump ha abituato ormai il mondo al suo tono muscolare, un po’ come nei vecchi western: sopravvive chi è più veloce a estrarre la pistola e a sparare. Tale comportamento si è accentuato in maniera progressiva all’avvicinarsi dell’election day, che lo vede in difficoltà, almeno nei sondaggi, nei confronti del suo avversario: la sua popolarità si è ridotta soprattutto per la gestione superficiale della pandemia (ieri ha lasciato il Walter Reed Hospital ed ha fatto ritorno alla Casa Bianca) e per aver minimizzato le forti diseguaglianze in seno alla società americana, esplosa recentemente nella rabbia della popolazione di colore. Quando le cose non vanno bene, si sa, occorre trovare un capo espiatorio; il solito e, forse, il preferito è la Cina.
La visita del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, in Italia è stata quasi integralmente polarizzata, a livello mediatico, dalle tensioni con il Vaticano, accusato – non senza qualche ragione – di essere eccessivamente filocinese. Tuttavia, per una curiosa coincidenza, la sua visita è stata contestuale all’inaugurazione proprio a Roma del Cybersecurity and Trasparency Center di Huawei, la società tecnologica forse più ostracizzata al mondo dai governi americano e britannico, che ha cambiato idea sull’appalto della costruzione di reti 5G proprio a seguito delle pressioni statunitensi. Ma il presidente di Huawei Italia (Luigi De Vecchis), dopo aver mostrato sconcerto per la violenta guerra mossa contro il gruppo, ha dichiarato apertamente la ferma linea aziendale: “Noi non molliamo e non molleremo; non andremo via dall’Italia. Se dovessimo rallentare l’attività per la carenza di componenti come i semiconduttori, ci vorrà qualche anno, ma poi diventeremo indipendenti”. Nell’hub romano, dunque, aziende pubbliche e private potranno verificare in prima persona il livello di sicurezza della tecnologia cinese.
Un’altra vicenda interessante è quella legata al destino dell’app TikTok, di cui il presidente Usa ha decretato l’illegittimità a partire dallo scorso settembre (termine poi differito a più riprese), a meno che ByteDance, titolare dell’app, ceda le attività negli Usa ad una società nazionale, prima candidata Microsoft (trattativa improvvisamente andata in fumo), poi Oracle, trattativa – pare – ancora in corso, che vedrebbe la costituzione di una nuova società americana dove Oracle dovrebbe detenere una partecipazione di minoranza lasciando il controllo a ByteDance; ma il perimetro della partecipazione americana (minoranza o maggioranza) sarebbe il freno principale. Anche qui, insomma, i cinesi non mollano!
Le ragioni addotte dall’amministrazione americana per una decisione così unilateralmente forte sarebbero rinvenibili nella tutela della sicurezza nazionale, minacciata dalla visibilità dei dati da parte del partito comunista cinese, che avrebbe riservato a sé tale prerogativa, con atto altrettanto unilaterale, bisogna dire. Ma il segreto di TikTok è l’algoritmo sottostante, che, utilizzando meccanismi di intelligenza artificiale, raccomanda contenuti personalizzati, stimolando gli utenti a creare nuovi video e ad usare pressoché di continuo l’applicazione: in breve tempo, l’app è divenuta il terzo social mondiale per ricavi pubblicitari.
Comunque, la tecnologia che anima l’app non può essere esportata senza approvazione del governo cinese, in base ad un provvedimento varato dalla Cina a fine agosto. Come se ciò non bastasse, anche la magistratura statunitense ha voluto dire la sua, bloccando l’esecutività del decreto Trump quasi in extremis, probabilmente per dare più spazio alle chance di accordo tra Oracle e ByteDance.
Tutto questo ci induce a porci almeno una domanda: le tanto invocate ragioni di sicurezza nazionale sono il vero motivo di questa guerra senza esclusione di colpi?
Come ricordato da Angela Merkel al World Ecominc Forum di Davos del 2018, il possesso dei big data segnerà le sorti del futuro, politico ed economico. L’avvento della tecnologia 5G incrementerà in modo esponenziale le informazioni trattate, dando piena attuazione alla legge delle “3v”: “volume” (eterogeneità delle fonti di provenienza), “velocità” (tempestività nell’analisi e nella gestione di ingenti quantitativi di dati), “varietà” (diversità dei formati, numerici, testuali, ecc.). Il “mistero TikTok”, sul cui codice tutti vogliono mettere le mani, sembra quasi anticipare i tempi, vista l’incredibile estensione virtuale della realtà creata dai brevi video sincronizzati che sollecitano la fantasia, soprattutto dei più giovani.
L’uso dei big data, tramite applicazioni sempre più sofisticate e semplici al contempo, consente di sviluppare modelli conoscitivi assai diversi dal carattere discorsivo del linguaggio tradizionale, dove vari elementi legati all’immaginazione, all’emotività ne costituiscono ormai il tracciato logico esclusivo: per questo hanno un valore inestimabile. Non so come andrà a finire la vicenda, ma credo ci riserverà ancora parecchie sorprese. In fondo, siamo solo all’inizio.