Dopo qualche indecisione, Donald Trump ha firmato l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, la norma, votata in modo bipartisan dal Congresso, a difesa dei diritti umani a Hong Kong. La firma ha immediatamente scatenato l’ira di Pechino, che ha minacciato contromisure, diffidando gli Usa a non interferire in affari che riguardano la Cina. Secondo Giovanna Pancheri, corrispondente da New York di SkyTg24, “Trump davanti a un voto bipartisan del Congresso non poteva rifiutare di firmare il decreto. Soprattutto in un momento in cui infuria la guerra dei dazi, questo decreto potrebbe essere un’arma in più nel confronto con Pechino”.
Come mai Trump alla fine ha firmato questo decreto, vista la reazione, comunque del tutto attesa, della Cina?
Il peso del voto bipartisan non poteva essere ignorato e comunque questo decreto è un’arma che Trump può usare nel negoziato sui dazi. Inoltre la Cina già in passato, ad esempio quando in Canada venne arrestata la figlia del fondatore di Huawei, ha chiuso un occhio davanti a questi – chiamiamoli così – dispetti.
Perché?
La Cina vive un momento difficile, c’è un rallentamento pesante dell’economia e c’è un’epidemia che sta decimando i suini. Gli Usa, è giusto ricordarlo, sono il secondo paese al mondo a rifornire la Cina di carne di maiale.
In che senso Trump può usare questo decreto come un’arma?
Va detto intanto che Trump ha fatto passare quasi di nascosto la sua firma. Non ha invitato le televisioni né i fotografi, come fa di solito, e nemmeno si trovava alla Casa Bianca, bensì nella sua residenza in Florida. Si è limitato a dire: “Firmiamo per Xi Jinping e per Hong Kong nella speranza che si trovi una soluzione pacifica”.
Un atteggiamento che possiamo definire molto moderato?
Trump ha dichiarato anche che valuterà se applicare o meno la norma in questione. Va poi detto che gli Usa con Hong Kong hanno un rapporto commerciale diverso che con la Cina. Sono stati proprio i manifestanti a chiedere di inserire una norma che avrebbe penalizzato la ex colonia inglese. Evidentemente, il commercio e l’economia hanno sempre un posto di rilievo quando si parla di diritti umani.
A proposito di guerra dei dazi, a che punto è la trattativa? Ci sono sviluppi?
Ci avviciniamo al 15 dicembre, termine entro il quale dovrebbero scattare nuovi dazi, per esempio sui telefonini smart, a meno che non si arrivi alla fase uno che Trump aveva detto essere abbastanza vicina. È un negoziato in cui è Trump ad avere la pistola in mano. Lo vedremo il 15 dicembre: se non scattano nuove sanzioni, vuol dire che si è arrivati alla cosiddetta fase uno. E Trump ha tutto l’interesse a tirare il confronto per le lunghe, visto che deve impegnarsi per le prossime presidenziali.
E l’impeachment? C’entra in qualche modo con questa firma?
Nel momento in cui, con un impeachment in corso, arriva un decreto votato in modo bipartisan, Trump ha meno interesse a bocciarlo. Adesso gli fa gioco tenere uniti i repubblicani. Finora è andata così, ma sarà molto diversa la fase del voto al Senato rispetto alla Camera, perché i senatori sono politici più esperti, che devono rendere conto ai propri Stati e che amano avere una voce indipendente.
Trump rischia di non avere l’unanimità dei repubblicani in Senato?
Diciamo che a differenza della Camera, dove c’è stata la difesa a oltranza cercando di screditare tutti i testimoni che hanno preso parte alle audizioni, al Senato sentiremo qualche critica. Dipenderà anche da come andrà l’economia: se continuano i risultati positivi, allora i senatori non avranno interesse a mettere in difficoltà Trump.
Vista da New York, dove lei vive, che aria tira nel paese? Trump ha paura di questo tentativo di impeachment? E quali contromosse ha in mente?
Trump ormai ci ha fatto il callo a questi tentativi, sin dal giorno in cui è entrato alla Casa Bianca. Di certo una messa in stato di accusa ufficiale è più grave, e i casi analoghi nella storia sono stati pochissimi, però sa che a differenza di Nixon può contare sui repubblicani che rimarranno fedeli.
Sembra che il 40% dei suoi elettori continui ad avere fiducia in lui. È così?
Qui escono sondaggi in continuazione. Nell’ultimo si è visto che le audizioni dei testimoni per l’impeachment non hanno cambiato di una virgola il consenso. C’è sempre una lieve maggioranza, il 52%, che è a favore, ma anche la quota dei contrari è la stessa. Anche la sua popolarità, che prima che si aprisse il caso era al 42%, oggi è identica.
Che cosa significa questo?
Ci dice che ha ragione chi sostiene che Trump è un presidente divisivo, che ha aumentato i conflitti politici. Ma non bisogna pensare che questo porti facilmente a una sua sconfitta. Contano altri fattori fondamentali, ad esempio la scelta del candidato dei democratici.
Anche Bloomberg è sceso in corsa. Ha fatto la scelta giusta?
Il problema di Trump è che lui è divisivo anche fra i repubblicani, i nostalgici di Bush e Reagan fanno ancora fatica ad accettarlo. Se i democratici danno la nomination a Bloomberg, molti repubblicani moderati lo voteranno. Ma sarà molto, molto difficile che l’ex sindaco di New York ottenga questa nomination.
(Paolo Vites)