Pace o tregua? È la domanda che ha accompagnato la firma della “fase uno” dell’accordo commerciale fra Usa e Cina con cui Pechino si è impegnata ad acquistare nei prossimi due anni 200 miliardi di dollari in più rispetto alla baseline dei 188 miliardi di dollari del 2017, ovvero prima dell’inizio della guerra commerciale. Una questione che, se ha il pregio di rispondere alle urgenze del dibattito che si consuma sui media, condiziona molto la prospettiva con cui provare a comprendere il processo in atto.



Per il presidente Trump l’accordo ha una valenza puramente strumentale e quindi da spendere sul teatro domestico a favore della sua base elettorale – i farmer del Midwest che producono la soia che i cinesi dovrebbero acquistare –, dimostrando di aver saputo piegare la volontà dei cinesi nel nome dell’interesse nazionale, ma in realtà la firma va collocata all’interno di un processo complesso, i cui tempi superano di gran lunga quelli della congiuntura che tanto affascinano i commentatori.



Dovendo analizzare la transizione in atto, conviene tenere fermi sullo sfondo alcuni fattori che pongono il rapporto fra Usa e Cina sul piano strutturale delle relazioni internazionali.

La guerra dei dazi ha palesato una realtà in cui il rapporto fra Usa e Cina è ancora molto stretto e se il decoupling fra le due economie è destinato a realizzarsi nei prossimi 10-15 anni, il modo in cui si concretizzerà è ancora tutto da decifrare. In definitiva, si tratta di capire se il prossimo riassetto geopolitico avverrà in modo traumatico e basato esclusivamente sui rapporti di forza oppure graduale e governato in modo condiviso.



La realtà ci dice che se ufficialmente Usa e Cina continuano a guardarsi in cagnesco, al momento nessuna delle due superpotenze reputa conveniente arrivare allo scontro diretto. Ha ragione, quindi, chi sostiene che concretamente la trade war ha interessato soprattutto le aspettative degli speculatori e quindi i mercati finanziari: infatti, anche considerandola, come fa il Financial Times, la causa di uno shock negativo sulla domanda aggregata statunitense, l’allentamento della politica monetaria con cui ne sono stati mitigati gli aspetti negativi, di fatto non ha dato vita a una vera e propria guerra monetaria, cosa che rappresenterebbe il sintomo più evidente di una escalation dagli esiti imprevedibili.

Provando a guardare il mondo con gli occhi del presidente Trump, chi ha avviato qualcosa che si avvicina a una guerra di valute è soprattutto la Germania dal colossale surplus commerciale, ed è quindi probabile che sarà proprio l’Unione Europea il prossimo campo del confronto fra Stati Uniti e Cina. Come ha registrato il South Cina Morning Post, l’attivismo del diplomatico Yang Jiechi alla conferenza di Berlino ha fatto intendere che l’impegno della Cina nel teatro del Mediterraneo, già avviato con il progetto per la ricostruzione della Siria e confermato dalla collaborazione con l’Ue per la stabilizzazione della Libia, si estenderà anche all’economia con un piano ingente di investimenti.

Dopo l’incontro con il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, Yang Jiechi ha dichiarato che la Cina è disposta a collaborare direttamente con l’Ue per “garantire quest’anno il successo di una serie di importanti punti per l’agenda dell’Ue e della Cina”. Un avvicinamento che, messo in relazione alla firma della “fase uno” dell’accordo fra Stati Uniti e Cina, fa intuire che se ufficialmente le due superpotenze non sembrano aver intenzione di avviare una aperta escalation su scala globale, troveranno nel teatro europeo e nel Mediterraneo il campo su cui “sfogare” le loro tensioni.

Uno scenario non confortante per l’Europa, che ormai mostra le sue fragilità strutturali. Nel recente Word economic outlook per il 2020 del Fmi, l’Unione Europea addirittura è superata dal Regno Unito che crescerà dell’1,4% rispetto al suo +1,3%. Un dato, passato sotto silenzio – che pone in una luce diversa tutta la polemica che ha accompagnato la Brexit – da mettere anche in relazione al modo negativo in cui hanno reagito sul mercato azionario all’accordo fra Usa e Cina i colossi europei dell’industria automobilistica.

Al dossier delle relazioni commerciali fra Stati Uniti e Ue vanno sommati le conseguenze del progetto di imporre imposte ai colossi del capitalismo digitale Amazon e Facebook, il caso dei sussidi per Airbus e il ruolo di Huawei nella costruzione in Europa delle reti 5G. Va da sé che questi elementi contribuiscono a tratteggiare uno scenario caratterizzato dall’incertezza e da future tensioni.

In un quadro del genere, la metafora di una nuova guerra fredda usata per descrivere, forse in modo incauto, lo scenario globale attraversato dal confronto geopolitico fra Usa e Cina, ha senso solo se si tracciano i campi su si esprimerà apertamente questa competizione. Se il decoupling fra l’economia americana e quella cinese si realizzerà, comporterà una radicale riconfigurazione delle catene del valore su scala globale. Un processo che costringerà gli altri attori delle relazioni internazionali a prendere decisioni, e che nel quadro di una progressiva riduzione dell’interdipendenza commerciale, implica scelte di campo per quelle economie che ancora si ostinano a essere a base export led, come quella tedesca e quindi italiana.

Il proverbio che recita “fra i due litiganti, il terzo gode” non sembra quindi addirsi al caso delle relazioni internazionali, che piuttosto in questo momento ci restituiscono l’immagine di una Ue più simile al classico vaso di coccio fra due vasi di ferro.