Il viaggio di Janet Yellen, la segretaria al Tesoro, dopo quello del segretario di Stato Anthony Blinken, in apparenza non ha prodotto al momento grandi frutti. La Yellen ha criticato le “azioni punitive” contro le aziende americane, ha sollecitato riforme per impedire le “pratiche economiche inique” e ha aggiunto: “Cerchiamo nuove relazioni bilaterali, non un disaccoppiamento”, auspicando che le tensioni geopolitiche non danneggino le relazioni economiche. Una speranza, ma anche un gran bel dilemma.
La Reuters ha pubblicato gli ultimi dati sul commercio: le due maggiori economie mondiali restano strettamente legate l’una all’altra con scambi che hanno raggiunto il record di 690 miliardi di dollari l’anno scorso. Non solo, la Cina possiede una quota consistente del debito Usa in dollari: con circa 900 miliardi è il secondo detentore di titoli dopo i risparmiatori americani. Disincagliarsi è impossibile, cambiare i rapporti è molto difficile, ma inevitabile. Gli Stati Uniti, l’Europa (compresa la Gran Bretagna) camminano su un filo sottile, ancor più l’Italia che entro la fine dell’anno deve decidere se confermare oppure no il memorandum sulla Nuova Via della seta. La pressione del mondo degli affari per ridurre le tensioni è molto forte ovunque.
Greg Hayes, il capo della Raytheon, il colosso americano di radar e missili (Tomahawk e Patriot i più noti) ha ammesso che “se dovessimo lasciare la Cina ci vorrebbero molti molti anni per ristabilire la nostra capacità produttiva”. L’agenzia Bloomberg riporta che l’80% delle aziende statunitensi prevede di accorciare le proprie catene di approvvigionamento in futuro. Il 60% delle aziende europee sta cercando di de-localizzare la produzione nel proprio Paese d’origine o in un Paese vicino entro il 2025. Eppure Apple non abbandona la Cina, non può farlo. Elon Musk si è recato a Pechino il 30 maggio e ha dichiarato di voler crescere nel suo maggior mercato per Tesla, senza dimenticare la grande gigafactory a Shanghai. Bill Gates ha incontrato Xi Jinping che lo ha chiamato “un vecchio amico”. Alla sfilata pechinese s’aggiungono Mary Barra della General Motors a fine maggio, David Solomon di Goldman Sachs, Jamie Dimon di JP Morgan, Pat Gelsinger di Intel che intanto diversifica in Israele e in Europa (Germania, Irlanda, Polonia, forse l’Italia). Per il capo della Mercedes è impossibile separare l’industria tedesca dalla fabbrica mondiale: “La Germania non può tagliare i ponti”, ha dichiarato Ola Källenius. Berlino ha da poco ospitato un vertice bilaterale. Emmanuel Macron è stato tre giorni in Cina in aprile e ha venduto più che comprato: sono stati firmato ben 18 accordi di cooperazione (energia verde, nucleare, finanza). L’Unione europea non ha ancora una linea comune e questo lascia spazio per un fai da te che rischia di rivelarsi dannoso per tutti.
Il modo in cui sono state bloccate le pressioni di Pechino per determinare la guida della Pirelli, mostra che il Governo Meloni intende seguire una linea ferma, ma flessibile. Prima della pandemia le aziende partecipate da capitali cinesi erano arrivate a 760 facenti capo a ben 405 gruppi con poco meno di 44 mila dipendenti e un giro d’affari di oltre 25 miliardi di euro. Al primo posto energia e infrastrutture, con partecipazioni di circa il 2% in Enel e Eni. Più consistente l’ingresso nella holding Cdp Reti che controlla Terna, Italgas e Snam, della quale State Grid International detiene un cospicuo 35% pagato 2,1 miliardi. Poi è arrivata Ansaldo Energia: Shanghai Electric aveva raccolto un 40% in cambio di 400 milioni di euro. Bank of China ha investito un 2% anche in Telecom Italia, Prysmian, Stellantis, Assicurazioni Generali e Mediobanca. La più antica presenza nelle telecomunicazioni risale al 2000 quando Hutchison Wampoa del magnate di Hong Kong Li King, aveva fondato H3G poi confluita in Wind Tre controllata da CK Hutchison holding. Per controllare la Pirelli, Chem China ha speso ben sette miliardi di euro. La Benelli è finita nell’orbita di Pechino, come i motoscafi Ferretti e la De Tomaso. Forte l’interesse per i marchi del lusso con Roberta di Camerino, Miss Sixty, Krizia, Cerruti, nel vino e nell’alimentare con i marchi oleari Sagra e Filippo Berio. Le mire sui porti sono state in parte contenute: a Gioia Tauro è entrata la Msc di Aponte, a Trieste i cinesi arrivano attraverso la società del porto di Amburgo, ma il Governo italiano sfodera il golden power, resta la gestione di minoranza a Savona-Vado Ligure.
Molti sostengono che Henry Kissinger, con la sua intervista all’Economist, abbia scosso la diplomazia americana. Il centenario maestro della Realpolitik ha detto che per evitare la Terza guerra mondiale bisogna trovare il modo di riannodare i rapporti con Pechino e ha ricordato di quando riuscì a far incontrare Mao Tsedong e Richard Nixon nel 1972. Non c’è tempo da perdere, “ci sono solo da cinque a dieci anni” prima della catastrofe. Si è acuito così il tradizionale contrasto tra realisti e idealisti emerso soprattutto negli ultimi mesi anche a proposito della Russia. L’Italia ha bisogno di liberarsi dall’imbarazzante legame politico conseguenza dell’accordo firmato nel marzo 2019 dal governo Conte-Salvini. La pressione americana è evidente e Giorgia Meloni deve trovare un modo di separare la ragione politica da quella economica, come ha detto il ministro Urso. Le imprese esportatrici che trainano l’economia italiana, temono che, dopo la ricaduta delle sanzioni alla Russia, si crei un baratro con il mercato cinese. Insomma, la pensano come il Cancelliere tedesco Olaf Scholz: “Siamo liberali non stupidi”.
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