È una partita complicata quella che si gioca sul tavolo delle guerre commerciali. Lo dimostra il tweet con cui Donald Trump ha dato a suo modo il benvenuto alla delegazione cinese che proprio oggi è attesa a Washington per sigillare la “pax commerciale” che si prefigurava dopo il G20 di Buenos Aires. Minacciando di alzare i dazi del 25% su prodotti cinesi del valore di 200 miliardi di dollari, e addirittura di estendere “a breve” la nuova aliquota su prodotti per ulteriori 325 miliardi di dollari, il Presidente americano ha provato a portare su un terreno a lui congeniale la trattativa con la Cina, ma il costo di questa prova di forza potrebbe avere delle ripercussioni catastrofiche su tutta l’economia globale, come con tono decisamente allarmistico ha ricordato Christine Lagarde.



Provare a intuire la motivazione che ha spinto Trump a una decisione del genere, può risultare un esercizio alquanto inutile; sono molti a propendere per un bluff con cui mettere pressione a Pechino, mentre altri, probabilmente più avveduti, vedono, in quella che può sembrare una strategia comunicativa poco ortodossa fatta a colpi di tweet, un disegno che in realtà mira a condizionare il mercato azionario e le strategie future della Fed. A ben vedere, però, il confronto fra Usa e Cina, verte su visioni e strategie non compatibili nel breve periodo, in cui le fragilità dell’uno sono la forza dell’altro.



La presidenza Trump è costretta a fare i conti con criticità che la costringono a prendere decisioni condizionate dall’urgenza del presente, anche i successi di Wall Street e i buoni dati sull’occupazione e la produttività sono l’altra faccia della medaglia della finanziarizzazione, del rischio del Shutdown e del deficit sulla bilancia commerciale. Problemi di natura strutturale, che devono essere affrontati in un arco temporale di medio e lungo periodo, un lusso che una presidenza che si avvicina alle elezioni non può permettersi. La Cina, viceversa, com’è chiaro a gran parte degli analisti, si muove su orizzonte temporale di lungo periodo. In definitiva gli Usa non hanno intenzione di affrontare i propri problemi strutturali, mentre la Cina sta riorientando la propria economia nazionale in senso domestico, puntando all’autosufficienza nazionale e alla gestione politica delle trasformazioni in atto all’interno della società.



In questo quadro, la Nuova via della seta è la proiezione geopolitica di una nazione che sta programmando una trasformazione. Il presidente Trump, anche se in modo disinvolto, portando il piano delle relazioni internazionali sul piano dei rapporti di forza, da un lato rende palese la realtà che la retorica neoliberista celava, dall’altro prova a far pesare quello che rimane della leadership americana su scala internazionale.

Verrebbe da chiedersi come la presidenza Trump potrebbe risolvere il dilemma di Triffin all’interno del quale l’economia americana è sempre più immersa. Come, cioè, possano gli Stati Uniti mantenere la funzione del dollaro come moneta di riserva su scala globale e al contempo mantenere il peso di una bilancia dei pagamenti in passivo e la stabilità dell’intera architettura del sistema finanziario internazionale. Un conflitto d’interessi che destina il sistema all’instabilità e a far prevalere l’egoismo nazionale americano nel breve periodo su quelli di lungo periodo dell’economia internazionale. Una condizione di instabilità che si aggiunge all’incertezza, la condizione ideale per cui può prosperare un’economia finanziarizzata, che può far concretizzare il famoso “cigno nero” che continua ad aleggiare sulle nostre teste.

La dirigenza cinese da tempo ha acquisito la consapevolezza di questa realtà e già nel 2009 Zhou Xiaochuan, il governatore della Banca polare cinese, propose come rimedio all’instabilità post-crisi del 2007/2008 la sostituitone della funzione di moneta di riserva del dollaro, con i Diritti speciali di prelievo, ovvero con la cosa che più si avvicina alla funzione del bancor di keynesiana memoria.

Probabilmente il negoziato fra Cina e Usa è destinato a continuare fra alti e bassi, ma prima o poi i nodi verranno al pettine e probabilmente chi riuscirà a garantire la stabilità e l’equilibrio dinamico del sistema si assicurerà la leadership globale. Una partita complessa che come giocatori non ha soltanto Usa e Cina, ma che comprende la Russia e l’Unione europea post-Aquisgrana che però in questo momento sembrano avere prospettive diverse.

La dichiarazione di Kiron Skinner, direttrice della pianificazione politica del Dipartimento di Stato, secondo la quale la competizione con l’Unione Sovietica si svolgeva “all’interno della famiglia occidentale, perché Marx era portatore di teorie europee, Pechino non è figlia della filosofia e della storia occidentale, quindi per la prima volta nella storia ci troviamo di fronte a un grande avversario del tutto diverso da noi, not caucasian“, oltre a evocare lo scontro fra civiltà e un’ottocentesca lotta fra razze, sembrerebbe in realtà prefigurare una convergenza di interessi con la Russia di Putin, nel nome di un’alleanza anti-cinese. Un cambiamento di portata epocale all’interno del sistema delle relazioni internazionali che investe in pieno il modo con cui gli occidentali penseranno in futuro la democrazia e il ruolo delle istituzioni internazionali.

Se per la Russia potrebbe prospettarsi un ruolo importante, l’Unione europea a egemonia franco-tedesca sembra arrancare, con una periferia sempre più attratta nella sfera d’influenza cinese e con un core che, se dopo Aquisgrana sembra voler affrontare da protagonista la competizione globale, non ha intenzione di abbandonare il proprio modello economico. Ovvero quello di un’economia export-led che l’espone al ritorno in grande stile del neo-protezionismo. Se è vero che si stanno andando coagulando dei grandi agglomerati geo-economici che puntano all’autosufficienza tecnologica e finanziaria, per l’Unione europea, la cui economia dipende dalle esportazioni, l’uscita dalla crisi potrebbe rivelarsi un miraggio. Il crollo del Pil e la riduzione del surplus strutturale tedesco sembrano confermare questa ipotesi.

Parafrasando Mao potremmo dire che se è grande la confusione sotto il cielo, la situazione non è per niente eccellente, almeno per chi non ha il coraggio di capire che tutto sta cambiando.