L’Amministrazione Biden ha deciso di riesaminare la politica commerciale nei confronti della Cina e all’inizio di questa settimana ha illustrato una revisione completa. La nuova politica commerciale prende le mosse e si basa su quella lanciata da Donald Trump che ha iniziato una guerra commerciale che non si vedeva da decenni. Gli strumenti sono gli stessi adottati dal precedente inquilino della Casa Bianca e la novità è che gli Stati Uniti vorrebbero riaprire un processo di revisione delle eccezioni, ai dazi, per le imprese americane che era iniziato sotto Trump. Trump, infatti, aveva annunciato e introdotto dazi, ma contemporaneamente aveva dato via a un processo per introdurre eccezioni che ora Biden ha fermato; l’Amministrazione attuale quindi finora è stata più “cattiva” di quella precedente in termini di guerra commerciale.
Questo processo è molto importante nel contesto attuale. Nelle ultime settimane abbiamo appreso che le imprese cinesi, in seguito alle iniziative del Governo di Pechino per consumare meno energia, hanno rallentato le forniture all’Occidente. Ciò significa imporre nuove tensioni sulle catene di fornitura globale e lasciare tante imprese occidentali senza componenti; le conseguenze sulla disponibilità di beni, sulla crescita e sui prezzi sono intuibili. Il blocco delle esportazioni verso l’Occidente si inserisce perfettamente in uno scenario di guerra commerciale. È chiaro che anche le imprese cinesi ci perdono; esattamente come il consumatore americano ha pagato i dazi imposti sulle importazioni cinesi con prezzi più alti perché i costi di produzione cinesi, si pensi solo alle regole climatiche, sono molto inferiori. Si scambia un danno di breve periodo certo per ottenere un beneficio di medio lungo periodo maggiore; gli Stati Uniti, iniziando con Trump, hanno deciso di scambiare un danno ai consumatori americani con il ritorno in patria di un po’ di manifattura e il riequilibrio del deficit commerciale. Oggi la Cina scambia i danni alle esportazioni in vista di un accordo commerciale e forse politico più certo e meno penalizzante.
Non sappiamo dove porterà il riesame dell’Amministrazione Biden sappiamo però da dove prende le mosse. La decisione cinese mette a rischio la disponibilità di beni in Occidente e causa un incremento di prezzi in uno scenario in cui le materie prime, petrolio in primis, viaggiano ai massimi degli ultimi anni. Il rimpatrio delle catene di fornitura richiede tanti investimenti e molto tempo per potere essere attuato senza scossoni; cercare di ottenere il risultato nel breve periodo è impossibile nel mondo reale. L’incremento delle materie prime e le quarantene per combattere il Covid non facilitano il processo.
Il rincaro delle materie prime si spiega solo in parte con le politiche di decarbonizzazione percorse a tappe forzate. Queste concorrono a spiegare la differenza tra quello che succede al prezzo del gas in America, raddoppiato, e quello che succede a quello europeo che invece è cresciuto di quasi dieci volte. I prezzi delle materie prime però salgono ovunque in conseguenza di una guerra “commerciale” su larga scala che priva una certa economia di una materia prima fondamentale, esattamente come altre sono private della componentistica o delle importazioni. Nessun Paese ha “tutto”.
La guerra commerciale in atto costringe i governi a sopprimere la domanda con strumenti finanziari, un rialzo dei tassi, o di altro genere. La transitorietà dell’inflazione vale solo se gli elementi che la producono vengono meno. Se invece guerra commerciale e ampia liquidità continuano, convincere le famiglie e i consumatori che è temporanea e offuscare il costo reale con un paniere che forse non è più significativo diventa un mestiere difficile anche con una propaganda a “reti unificate”.
Nelle discussioni commerciali tra Cina e Stati Uniti si gioca una parte fondamentale del futuro economico e finanziario di breve-medio periodo per tutti. Parte del danno che è stato prodotto finora potrebbe rientrare.
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