Su iniziativa della presidenza Biden, il 12 giugno il G7 ha deciso di varare il piano Build Back Better World (B3W) con il quale gli americani intendono dare vita a una partnership strategica che punta a dotare i paesi in via di sviluppo di una rete infrastrutturale, grazie alla quale colmare il divario con i paesi più avanzati.



Un progetto sulla carta molto ambizioso, finanziato con 40 trilioni di dollari, che entro il 2035 dovrebbe fornire ai paesi in via di sviluppo le infrastrutture di cui hanno bisogno. Un progetto che per gli analisti ha evocato per l’ennesima volta il Piano Marshall e che immediatamente è stato visto come l’alternativa americana alla cinese Belt and Road Initiative (Bri).



Al netto delle facili comparazioni con le esperienze del passato e dell’ironia della storia, che questa volta vede un Piano Marshall seguire un Comecon alternativo a quello dei paesi occidentali e dello scetticismo di chi vede nel B3W un progetto troppo ambizioso e destinato a rimanere nello stato embrionale, l’iniziativa di Biden merita comunque una serie di riflessioni che vadano oltre l’impressionismo.

A ben vedere il B3W ha una storia che ha le sue radici nei fallimenti dell’amministrazione Obama e nelle intenzioni di chi ha interpretato il “pivot to Asia” americano senza rinunciare all’iniziativa strategica nell’Asia orientale e nell’area dell’Indo-Pacifico. Nel 2011 Hillary Clinton, durante un discorso a Chennai, in India, parlò della necessità addirittura di una Nuova Via della Seta che doveva integrare le economie dei paesi europei con quelle dei paesi dell’Asia orientale ispirata da Frederick Starr, presidente del Central Asia-Caucasus Institute e del Silk Road Studies Program, un progetto che era l’altra faccia della medaglia della strategia del generale David Petreus e che puntava a ridefinire l’egemonia americana in Asia centrale.



Non è una coincidenza che, immediatamente tramontato il progetto americano, furono i cinesi, in modo poco originale, a iniziare a parlare di Nuova Via della Seta, avviando su scala globale una fase di assertività sul piano infrastrutturale e quindi geopolitico.

Biden riparte esattamente da dove Obama aveva lasciato e lo fa servendosi delle parole d’ordine “clima, salute e sicurezza sanitaria, tecnologia digitale, equità e uguaglianza di genere”, che declinate anche in senso strumentale determineranno il tentativo americano di essere al centro della prossima fase di sviluppo e ciclo di acculturazione. In definitiva, parliamo del rilancio della strategia globale Usa che ha nel B3W uno dei suoi strumenti d’elezione e nelle infrastrutture fisiche e immateriali il campo di battaglia. Una strategia che punta a ricompattare i paesi del G7 e a rilanciare l’iniziativa Usa nei paesi in via di sviluppo e soprattutto in quelli dell’Asia orientale, ai quali viene chiesto di sciogliere l’ambiguità di chi dipende economicamente dalla Cina e al contempo continua a chiedere la protezione militare americana.

Un progetto ambizioso, ma che deve fare i conti con una dura realtà in continua trasformazione e con la competizione cinese. La Bri si avvale di finanziamenti basati su prestiti bilaterali e investimenti garantiti da fondi e banche statali, che hanno nell’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib) il loro perno. Viceversa la B3W, che dovrebbe mobilitare investimenti tre volte superiori alla Bri, si basa su investimenti di privati, i quali hanno la necessità di avere dei ritorni nel breve periodo, mentre il settore infrastrutturale ha bisogno di un ciclo lungo di investimenti, i cui rendimenti si ottengono nel lungo periodo. A fronte dei bassi rendimenti degli investimenti fatti nelle infrastrutture nei paesi in via di sviluppo, la B3W si troverebbe ad affrontare gli stessi problemi della Bri, che però i cinesi hanno, in parte, risolto, facendo precipitare i paesi interessati nella famigerata “trappola del debito”.

Inoltre, l’iniziativa del B3W necessiterebbe di una governance garantita dal know how e dalla credibilità del Fmi. Del resto, il successo della Bri va proprio ricercato nel protagonismo della Aiib, la cui funzione va a sua volta ricercata nella sua attività alternativa a quella del Fmi e si ispira al suo operato svolto nel secondo dopoguerra e durante la Golden Age.

La B3W risente, anche a partire dal nome, delle esigenze di politica interna, proiettando su scala globale le inquietudini interne dell’amministrazione Biden, ma soprattutto rischia di essere una risposta parziale alla strategia di cooperazione cinese.  Rispetto al Comprehensive Agreement on Investment (Cai) e soprattutto rispetto al Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), la Trans-Pacific Partnership e la Transatlantic Trade and Investment Partnership sono strumenti ormai superati  dall’amministrazione Trump e dalla sua tendenza all’introversione, né l’amministrazione Biden sembra al momento potersi lasciarsi del tutto alle spalle la tendenza ad adottare le politiche protezionistiche del suo predecessore, come dimostrano la persistenza delle tariffe sull’acciaio e sull’alluminio europei.

Senza una reale politica multipolare, progetti ambiziosi come il B3W sembrano destinati a nascere depotenziati e, poiché al momento non sembra esserci all’orizzonte una nuova Bretton Woods, gli americani rischiano di dover ricalibrare i propri obiettivi verso una più realistica integrazione fra B3W e Bri, sperando magari che i propri valori e standard siano più attrattivi di quelli cinesi, ispirati formalmente alla non condizionalità degli investimenti e al virtuale rispetto della sovranità nazionale.

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