Prende il via oggi la tre giorni in Cina della segretaria al Tesoro Usa Janet Yellen. Una missione importante non solo per i rapporti tra le due superpotenze globali, ma anche, come ci spiega Domenico Lombardi, per l’Europa. L’economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, ora Direttore del Policy Observatory della Luiss, evidenzia in primo luogo come non sia un caso che «in questo momento di relazioni non facili tra Usa e Cina sia proprio la Yellen a recarsi a Pechino».



Cosa intende dire?

È un’accademica, percepita all’esterno dell’Amministrazione come la più indipendente e, avendo guidato la Federal Reserve, ha da lungo tempo una conoscenza delle controparti economiche cinesi. Non è un caso, quindi, che in questo momento sia lei ad andare a Pechino per cercare di contenere le frizioni attualmente esistenti tra Stati Uniti e Cina.



Qual è l’obiettivo che si prefigge Washington?

È chiaro a tutti che l’Occidente non può fare a meno della Cina, attore fondamentale per l’economia mondiale, per preservare il tenore di vita e la stabilità delle sue società. Allo stesso tempo, c’è l’esigenza di salvaguardare la sicurezza economica nazionale inserendo in modo quanto più chirurgico possibile una serie di salvaguardie, di restrizioni. Di fatto, non può più esistere un’economia completamente globalizzata, riguardante tutti i settori, visto che alcuni sono più sensibili per la sicurezza nazionale. Occorre, pertanto, cercare un nuovo punto di equilibrio. Da qui anche le tensioni e le contraddizioni nella stessa Amministrazione americana che si sono viste negli ultimi tempi.



Ci sono dei legami anche finanziari, pensiamo ai T-bond detenuti dalla Cina, che sarebbe difficile rompere per gli Stati Uniti.

Esattamente. L’intensità e l’ampiezza dei rapporti bilaterali rimangono particolarmente forti e per certi aspetti difficilmente reversibili. C’è, quindi, la consapevolezza della necessità di preservare una relazione che serve in primo luogo alla Cina, un regime autocratico che deve reperire le risorse necessarie a mantenere stabile il consenso su di sé di una popolazione di 1,4 miliardi persone. L’obiettivo di entrambe le parti è, pertanto, costruire insieme un nuovo baricentro nelle relazioni che ancora non esiste, cercando di minimizzare i costi, gli spillover negativi per tutti. Si tratta ovviamente di un tema che interessa tutto l’Occidente, ed evidentemente in primo luogo l’Ue. Questo nuovo assetto geopolitico pesa come un macigno sulle economie europee già impattate dalla crisi energetica e dall’invasione russa dell’Ucraina.

L’Europa, appare, in effetti, in una posizione non semplice. Nelle conclusioni del Consiglio europeo della scorsa settimana si legge, infatti, che la Cina viene vista contemporaneamente come “un partner, un concorrente, un rivale sistemico”…

La posizione europea è molto più complessa di quella americana perché alcune economie, come la Germania, hanno effettuato enormi investimenti in Cina difficilmente reversibili. Tali economie hanno già subito shock avversi, legati all’impatto della pandemia e della crisi energetica che hanno colpito l’Europa più che gli Stati Uniti. Peraltro, per l’Europa non si tratta semplicemente di ricalibrare la relazione con la Cina, ma di cambiare regime di politica estera.

Ci può spiegare meglio la necessità di questo cambiamento?

L’Ue ha operato sempre sull’assunto implicito di essere leale alla Nato, alleato politico e militare degli Stati Uniti, ma libera di intrattenere rapporti commerciali e di investimento con chiunque. Questa bussola di politica estera e di relazioni economiche internazionali dell’Ue va completamente rivista. Non è un compito semplice dato che mancano anche contropartite compensative. Nel momento in cui si chiede all’Europa di restringere il suo export verso la Cina, questa richiesta potrebbe essere più facilmente accolta se, per esempio, si creasse un mercato euro-americano. Questa potrebbe essere una contropartita compensativa, che tuttavia non è all’orizzonte.

Servirebbe, quindi, un atteggiamento proattivo americano per offrire una contropartita alla rinuncia al mercato cinese?

Sì. Chiaramente oggi la relazione degli Stati Uniti con l’Europa è definita prevalentemente in termini strategico-militari. Questo, però, a mio avviso, non è sostenibile in assenza di un uguale rafforzamento dei rapporti economici e commerciali. Non si tratta di costruire semplicemente un’area di libero scambio, ma di concepire un’area euro-americana di cooperazione rafforzata in cui creare un mercato che oggi non c’è. Se si chiede a Paesi mercantilisti come la Germania di restringere il proprio export verso la seconda economia del mondo, senza offrire una contropartita in termini di mercato di sbocco, il rischio è mettere in crisi interi settori dell’industria tedesca, sui quali già pesa l’onere della ristrutturazione per la transizione ecologica. Tra l’altro la spinta dell’Ue sulle politiche di decarbonizzazione la espone ancora di più alla Cina che ha la leadership globale sulle materie prime e le tecnologie necessarie.

L’industria tedesca sta facendo tra l’altro già i conti con i maggiori costi dell’energia, visto che non può più approvvigionarsi di gas russo…

Negli scorsi decenni, la Germania ha costruito la sua forza economica su tre pilastri: accesso a materie prime energetiche a basso prezzo, in sostanza gas russo; accesso al free trade nell’economia globalizzata; il dominio di alcune tecnologie il cui primato viene messo in discussione proprio dalla transizione ecologica. C’è, quindi, da chiedersi fino a che punto la Germania, per quanto abbia un’economia e una società molto coese, sia in grado di rispondere in modo equilibrato, senza scossoni, a tutti questi shock e se non possano sorgere, invece, degli elementi di frizione tra Germania e Stati Uniti.

Gli Stati Uniti devono, quindi, cercare di guardare in modo diverso all’Europa.

Per meglio riequilibrare i rapporti con la Cina, gli Usa hanno necessariamente bisogno di un player strategico come l’Ue. A oggi questa consapevolezza non mi sembra sia molto chiara. In genere nei circoli di Washington tende a prevalere ancora un’ottica unipolare rispetto ai rapporti con il resto del mondo.

L’Europa, dal canto suo, rischia di trovarsi in mezzo a due fuochi: non può disallinearsi dagli Stati Uniti, ma, come dimostrato dalle recenti visite di Scholz e Macron a Pechino, non può fare a meno di cercare di stringere accordi commerciali con la Cina.

Questa situazione rischia di generare una divisione ulteriore all’interno dell’Ue. I Paesi che hanno una maggiore proiezione geopolitica, in sostanza Francia e Germania, sono quelli che lavoreranno per continuare a ricavarsi delle aeree di relativa autonomia nelle relazioni con la Cina, a differenza degli altri Paesi che invece dovranno seguire in modo meno autonomo quelli che sono i nuovi equilibri geopolitici. Per esempio, abbiamo visto che il colosso olandese dei chip Asml ha dovuto bloccare le esportazioni verso la Cina, adeguandosi al blocco degli Usa verso Pechino. Contemporaneamente, in Germania la stampa raccontava di una grande azienda manifatturiera tedesca che vendeva tecnologia alla Cina, che poteva essere usata per scopi militari oltre che civili. C’è il rischio che queste asimmetrie in Europa si rafforzino.

Intanto l’Italia, entro fine anno, dovrà prendere una decisione sul rinnovo del memorandum siglato con la Cina sulla Nuova Via della seta.

La posizione del Governo italiano è molto chiara e sta cercando un punto di equilibrio con la Cina per, da un lato, non rinnovare il memorandum, e, dall’altro, salvaguardare le buoni relazioni con Pechino, fatto salvo il vincolo di lealtà alla Nato. Del resto, però, ci deve essere un atteggiamento coerente a livello europeo, perché non si può applicare un doppio standard. Il caso dell’assetto proprietario del Porto di Amburgo, di cui il colosso statale cinese Cosco detiene ormai il 25%, è in tal senso emblematico. È paradossale che si stigmatizzi l’interlocuzione con investitori cinesi, ma, allo stesso tempo, si guardi a soluzioni europee che, però, hanno assetti proprietari più articolati.

(Lorenzo Torrisi)

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