Negli ultimi mesi una serie di alti funzionari statunitensi si sono recati a Pechino nel tentativo di sostenere le traballanti relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Tra coloro che hanno intrapreso il viaggio c’era l’inviato americano per il clima John Kerry, i cui colloqui con la sua controparte cinese Xie Zhenhua erano stati sospesi da Pechino quasi un anno prima come ritorsione per il controverso viaggio a Taiwan dell’allora presidente della Camera Nancy Pelosi. Kerry e Xie non hanno fatto alcun progresso, né da allora ne è emerso alcuno. Ma l’incontro ha almeno segnalato la ripresa della regolare diplomazia climatica tra Stati Uniti e Cina in vista della Conferenza COP28 delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di quest’anno, che inizierà a novembre.



Tuttavia la regolare diplomazia climatica potrebbe non essere più sufficiente. Da quando Kerry e Xie hanno iniziato i colloqui nel 2021, i legami bilaterali si sono notevolmente deteriorati. Di conseguenza, funzionari e osservatori in entrambe le capitali sono diventati decisamente più pessimisti riguardo alla fattibilità di ritagliare una corsia separata per il progresso climatico in mezzo allo stallo diplomatico generale. Alcuni sostengono addirittura che la chiave per affrontare la crisi climatica sia l’intensificazione della concorrenza piuttosto che l’approfondimento della cooperazione: una proposta rischiosa, che potrebbe mettere a repentaglio le nostre possibilità di una transizione energetica tempestiva. In questo scenario, intanto, in Europa, a Strasburgo, si discute di clima e di limitazioni ai motori termici, in una sorta di gioco delle parti che non tiene in conto del peso dei due colossi.



Lo stato delle relazioni Usa-Cina è profondamente importante per il futuro dell’agenda sul clima. Gli Stati Uniti e la Cina sono rispettivamente il secondo e il primo emettitore di gas serra al mondo. Sono anche centri di innovazione dove, sperano i loro governi, verranno apportate le principali scoperte tecnologiche per alimentare la transizione verso l’energia verde. La Cina è già parte integrante della catena di fornitura globale di tecnologie-chiave come i pannelli solari e i veicoli elettrici. Nel frattempo, entrambi i Paesi dispongono di profonde riserve di capitale che potrebbero essere sfruttate per aiutare i Paesi meno sviluppati a compiere la transizione energetica e mitigare l’impatto del cambiamento climatico.



La cooperazione tra i due colossi è stata vitale per grandi progressi multilaterali in passato, come quando ha aperto la strada agli accordi sul clima di Parigi del 2015 concordando obiettivi aggressivi di riduzione delle emissioni nel 2014. Ed è proprio questo uno dei principali punti su cui i partiti europei più critici sulle modalità della transizione spingono per far capire come tutti gli sforzi europei rischino di essere solo un danno per le imprese e le famiglie europee, senza avere benefici dal punto di vista climatico. il rischio che si corre è quello di fare un favore alla Cina, che sulle limitazioni e le regole ambientali europee sta costruendo un vero e proprio business.

“Come conservatori europei – ha dichiarato Procaccini (Ecr) – chiediamo a Bruxelles di cambiare l’impostazione delle politiche energetiche e ambientali, che finora hanno portato a consegnare centinaia di miliardi di investimenti ai colossi industriali cinesi, che controllano quasi interamente le filiere delle due principali componenti della transizione ecologica, i pannelli solari e le batterie. Tutto questo – ha continuato Procaccini – è stato possibile anche grazie al dumping commerciale cinese degli ultimi venti anni, pratiche commerciali irregolari con cui la Cina ha abbassato enormemente i prezzi e ha sbaragliato la concorrenza a livello mondiale. Pratiche che passano anche per lo sfruttamento della manodopera degli uiguri nei campi di lavoro forzati che producono gran parte della materia prima dell’industria fotovoltaica cinese. Il risultato di tutto questo è che, secondo l’Aie, la Cina si prevede raddoppierà entro il 2024 la produzione di pannelli solari e senza nessun vincolo ambientale, con Pechino che da sola continua a emettere più anidride carbonica degli Usa e dell’Europa insieme”.

Consapevole di ciò, l’amministrazione americana ha perseguito politiche economiche che sembrano porre la transizione verde sempre più al centro della competizione Usa-Cina. Sommate insieme, queste politiche rendono sempre più insostenibile immaginare che in futuro il clima possa essere separato dalle più ampie relazioni bilaterali. Anche se ha sostenuto la separazione della diplomazia climatica da altre preoccupazioni, l’amministrazione Biden con le sue politiche economiche ha posto la transizione verde al centro della competizione Usa-Cina.

Il fulcro dell’agenda climatica dell’amministrazione Biden è l’Inflation Reduction Act. Nonostante il nome, l’IRA è principalmente un’iniziativa di politica climatica, che convoglia centinaia di miliardi di dollari di investimenti attraverso prestiti diretti, incentivi fiscali e sussidi nelle tecnologie necessarie per la transizione energetica. Mentre la Ue sembra voler far pagare il conto della transizione energetica ad imprese e famiglie europee. Poiché la Cina ha una posizione forte in questi settori chiave, l’amministrazione vuole garantire che la transizione energetica non porti semplicemente a grossi profitti per le aziende cinesi, e anche che gli Stati Uniti non diventino eccessivamente dipendenti dal loro rivale e avversario geopolitico. A sua volta, l’IRA fa parte della più ampia politica industriale dell’amministrazione, che mira esplicitamente a utilizzare il sistema economico internazionale come un’arma contro Pechino e a negare alla Cina l’accesso alle tecnologie avanzate.

L’amministrazione Usa ha recentemente iniziato a fare pressione sull’Unione Europea affinché accetti tariffe congiunte sulle industrie cinesi ad alta intensità di emissioni come l’acciaio e l’alluminio. Washington sostiene che la mossa è necessaria per combattere il cambiamento climatico, ma Pechino la vede come un altro attacco mirato all’economia cinese. In effetti, alcune voci nel dibattito americano sulla politica climatica ora vogliono spingersi ancora di più nella competizione con la Cina, sostenendo che così facendo si potrebbe contribuire a stimolare ulteriori progressi verso un futuro verde. In definitiva, la scissione del mondo in blocchi economici e tecnologici separati minaccia la cooperazione internazionale necessaria per realizzare una transizione energetica tempestiva e sostenibile.

In questo dibattito, come spesso accaduto, l’Europa rischia di restare tra il martello e l’incudine. Il suo peso nella politica internazionale e purtroppo ai minimi storici e i suoi sforzi di portare avanti politiche green rischiano di essere vani se anche Cina ed Usa non si decideranno ad accordarsi su una riduzione delle emissioni. Gli Stati Uniti vogliono che la Cina partecipi a meccanismi multilaterali come il Green Climate Fund, che fornisce capitali ai Paesi in via di sviluppo per sostenere la transizione energetica.

Coordinando e aumentando i loro finanziamenti, gli Stati Uniti e la Cina potrebbero ottenere molto di più di quanto non ottengano individualmente. Ma un futuro in cui il mondo sarà sempre più diviso in blocchi economici e geopolitici concorrenti renderebbe tale cooperazione molto più difficile, se non impossibile. E a pagarne lo scotto più pesante potrebbe essere proprio la vecchia Europa.

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