L’incontro tra Usa e Cina ad Anchorage, in Alaska, era previsto che non fosse una festa di gala, ma è andato chiaramente peggio del previsto. Le tensioni bilaterali, tra l’altro, potrebbero probabilmente avere ricadute anche in Myanmar, dove i due paesi hanno posizioni molto distanti. La Cina si sta adoperando per una mediazione, non prendendo comunque le distanze dai militari golpisti. Gli Usa sono dalla parte dei dimostranti per la democrazia e chiedono la cacciata dei militari al potere.
“Partiamo innanzitutto dal vertice di Anchorage – osserva Francesco Sisci, sinologo e giornalista, già editorialista di Asia Times. Personalmente mi aspettavo una posizione dura degli Stati Uniti, ma questa è stata al di là delle mie previsioni. Credo che gli Usa abbiano voluto dire alla Cina, chiaramente e formalmente, tutto quello che non gli va e che non stanno cercando un accordo commerciale o di sicurezza di corto respiro. L’America ha obiezioni sulla Cina per la sua mancanza di democrazia, per la repressione a Hong Kong o in Xinjiang, per le pretese territoriali e anche per la coercizione contro paesi alleati degli Usa. La Cina è rimasta sconvolta dalla serie di accuse che non hanno soluzioni facili o di breve periodo. Gli alleati erano preoccupati che gli Usa volessero un accordo bilaterale con la Cina che li marginalizzasse. In questo l’America ha voluto tranquillizzarli: gli Usa vogliono cambiare la Cina per come è e in questo chiedono agli alleati di prendere posizione chiaramente. La reazione piccata della Cina ha nei fatti dato ragione all’America: Pechino vive in un suo mondo e pensa che la sua ira sia naturalmente compresa da tutti. Gli Usa hanno risposto: avevamo fissato delle regole, i capi delegazione avrebbero parlato per due minuti, così abbiamo fatto noi, la Cina invece ha parlato per 20 minuti. Come a dire: la Cina è inaffidabile, non rispetta le regole e mantiene nemmeno i suoi stessi impegni. Da qui ci sono poche strade percorribili. Questo può avere conseguenze su Myanmar, che potrebbe progressivamente diventare il primo terreno di uno scontro per proxy delle due potenze”.

A proposito di Myanmar, come viene visto dai paesi dell’Estremo Oriente il golpe militare?



Giappone e paesi dell’Asean non stanno riuscendo a trovare una posizione di compromesso con i militari. La giunta non è divisa, come lo fu circa 25 anni fa, né in questo ultimo decennio è riuscita a creare un sistema di legittimazione civile alternativo. D’altro canto, la Lega democratica per la democrazia (NLD) ha ottenuto circa l’85% dei voti e non vuole rimanere sotto un potere militare. Il compromesso precedente non funziona più.



In questo contesto come si sta muovendo la Cina?

La Cina è oggettivamente tra l’incudine e il martello.

Perché?

Perché vede a rischio il suo gasdotto, che va dal golfo del Bengala allo Yunnan. E’ in funzione da circa cinque anni e crea un’alternativa strategica alle forniture che devono invece passare dallo Stretto di Malacca e dal Mar cinese meridionale, sempre più instabile per le contese internazionali.

Cosa potrebbe succedere se la Cina perdesse il gasdotto birmano?

Le sue forniture di petrolio da Africa e Medio Oriente sarebbero più a rischio. Una guerra nel Mar cinese meridionale a quel punto, chiunque la vinca, non farebbe altro che assetare di petrolio e altre materie prime la Cina. Pechino può sperare di trovare un compromesso fra NLD e militari, ma le tensioni stanno aumentando e l’orizzonte di un compromesso appare sempre più distante, mentre le due parti cercano una vittoria.



Sta dicendo che la Cina rischia di essere presa in trappola?

Non può abbandonare i militari, che potrebbero rivalersi in mille modi contro Pechino. Ma se i militari vincono, schiacciando la protesta dell’NLD, allora i cinesi appaiono come i sostenitori dei tiranni in Birmania e nel mondo.

E se i militari perdono?

I cinesi perdono tutto e devono poi rinegoziare tutto. E comunque cosa fa Pechino per garantire la sicurezza del gasdotto? Manda suoi volontari? Si fida dei militari birmani? Lo lascia nelle mani di ribelli dell’NLD? Tutte scelte difficili che implicano comunque un maggiore coinvolgimento cinese in Birmania.

Ma che significa un controllo maggiore della Cina in Birmania?

Prendiamo i casi di Hong Kong e di Taiwan. L’accusa contro la Cina a Hong Kong è di avere anticipato il ritorno del territorio all’autorità di Pechino, ma nessuno dice che Hong Kong non appartiene alla Repubblica popolare cinese (Rpc), il problema è solo legato a una scadenza temporale. E per Taiwan non c’è una scadenza temporale, non c’è consenso internazionale sull’appartenenza di Taiwan alla Repubblica popolare cinese, c’è un consenso sul fatto che Rpc e Taiwan appartengano entrambi a un’unica Cina.

Per la Birmania?

Non c’è niente di tutto questo e un maggiore coinvolgimento cinese nel paese sarebbe visto come un’estensione delle sue ambizioni politiche, a conferma della sua aggressività territoriale con riflessi globali. Se viceversa la Cina si ritirasse dalla Birmania e abbandonasse il gasdotto e i suoi interessi nel paese, allora sarebbe ancor di più imbottigliata nel Mar cinese meridionale.

Una partita molto intricata…

Non solo, perché arriva in un momento delicatissimo. Dal dopoguerra la politica monetaria è stata fatta sostanzialmente dall’America. L’ex Urss aveva un suo ambito separato che non influiva, nel concreto, su quello globale. Inoltre la crescita economica della Cina è finora avvenuta all’ombra del dollaro e delle politiche della Fed e così è stato anche per il grande stimolo finanziario di circa mille miliardi di dollari che la Cina ha realizzato con la crisi del 2008.

Oggi la situazione è diversa?

Sì. Stati Uniti e Unione europea hanno approntato grandi manovre di stimolo per rilanciare le loro economie nel post-Covid. Si tratta, considerando entrambi, di circa 4mila miliardi di aiuti diretti. Ma se si sommano anche gli aiuti concessi finora, più l’effetto leva, potremmo arrivare a cifre fantasmagoriche, senza precedenti nella storia dell’economia globale. Ma questo comporterà anche una ripresa dell’inflazione, che era di fatto scomparsa dagli anni Ottanta.

La Cina però non sta oggi concordando la sua politica economica con la Fed, né ha bisogno di altri stimoli finanziari, perché la sua economia è in piena ripresa. Cosa teme?

Teme di dover importare inflazione dall’estero, di dover affrontare una maggiore volatilità dei mercati e resta pure il rischio di dover svalutare la sua moneta, il renminbi, per mantenere le sue esportazioni competitive. Tutte queste sono scelte difficili, che hanno costi diretti e indiretti.

Per esempio?

Se si svaluta la moneta, la Cina rosicchia margini di mercato ad altri paesi, facendo così aumentare le frizioni internazionali. Se importa inflazione, va a toccare il potere d’acquisto della sua classe media, accrescendo i disagi sociali. In questo contesto essere risucchiati in un conflitto a lenta combustione come in Birmania potrebbe aggiungere ulteriori complicazioni.

(Marco Tedesco)

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