In Alaska si sono riuniti i diplomatici nordamericani e cinesi. Una notizia che certifica in forma innegabile che la guerra fredda tra Cina e Usa è iniziata in grande stile e che il Paese di Xi Jinping è destinato a ereditare dal punto di vista delle relazioni di potenza mondiali il ruolo che fu un tempo dell’Urss. Lo dimostra il livello della delegazione cinese: è il segno che il potere di Xi Jinping è uscito indenne dalla terribile crisi della pandemia e che sul fronte internazionale il Partito comunista cinese sta rinserrando i ranghi. La prova è nell’emersione netta di Wang Yi a capo della delegazione cinese. Wang inizia la carriera diplomatica nel cuore stesso del potere supremo della Cina post-imperiale, sposando la figlia di Qian Jiadong, il potentissimo segretario di Zhu Enlai ed è ministro degli Esteri dal 2013 a fianco di Xi e del capo del governo Li Keqiang sin dagli inizi del potere di Xi. Al suo fianco il suo predecessore, l’altrettanto potente Yang Jiechi; ministro degli Esteri, dal 2007 al 2013, quando fu nominato direttore dell’Ufficio della Commissione centrale degli affari esteri. 



Si è discusso in Alaska della nuova contesa che si apre su scala mondiale dopo l’accordo commerciale raggiunto sotto l’egemonia cinese tra 15 Paesi del Pacifico che coinvolge il 30 per cento della popolazione mondiale e un terzo della ricchezza prodotta sul pianeta: il Partenariato economico globale regionale (Rcep) grazie a cui la Cina vuole affrontare il passaggio all’era della sostituzione delle importazioni grazie alle quote crescenti di produzioni autoctone. Questa intesa chiude il cerchio del 14esimo piano del Partito comunista cinese: la shuang xun huan, ossia la “doppia circolazione”. Essa sembra de-privilegiare le esportazioni, ma di fatto spinge, invece, alla crescita del complesso del commercio indo-pacifico (con l’eccezione paradossale del gigante ancora silente, ossia dell’India, che sarà la vera sorpresa futura). 



A fianco di questo sommovimento si è posta in moto l’altra trasformazione epocale mondiale: nel luglio 2020, 54 su 55 Stati africani hanno stipulato un accordo di libero scambio (Afcfta) per eliminare i dazi doganali interafricani, sopprimendo del 90 per cento le barriere tariffarie e non tariffarie e ponendo le basi per il superamento, da parte delle borghesie africane, della dipendenza paralizzante dalle economie estrattive europee, nordamericane e cinesi. 

È interessante sottolineare la grandezza politica degli interlocutori cinesi: Wang è stato ambasciatore in Giappone, mentre Yang lo è stato negli Usa. Essi rappresentano il patto conclusosi tra le coorti principali del Pcc in questo tempo pandemico, tempo che vede il potere di Xi continuamente messo in forse dalle difficoltà economiche crescenti che incontra la Cina per la debolezza del suo mercato interno. Occorre prendere tempo. La necessità di un accordo di lungo periodo con gli Usa si pone in forma inderogabile ed è una condizione indispensabile affinché sia possibile raggiungere tra i gruppi interni al partito quell’accordo sul potere militare e sulla destinazione delle ingenti risorse necessarie per conseguire il disegno di Xi Jinping della Via della Seta, che richiede un investimento colossale di risorse che l’accordo recente stipulato con i partner asiatici vede invece rivolto più sul mercato interno che nelle pericolose avventure all’estero in cui il gruppo di Xi Jinping si è impegnato. 



Gli Usa dal canto loro hanno l’assoluta necessità di riprendere la leadership nell’Asia centrale, dove si scontrano da decenni con l’instabilità organica, storica, del “grande gioco”: il crollo dell’Urss, e prima del Regno Unito, ha aperto un vuoto colmato solo dal potere rizomatico del fondamentalismo islamico sostenuto volta a volta dai sunniti o dagli sciiti. La questione iraniana è quindi fondamentale tanto come quella saudita e quindi l’Asia centrale non potrà non essere a centro di questi primi colloqui nordamericano-cinesi. 

Immobile e attenta l’India deciderà dopo l’esito di questo primo incontro (e dagli altri se ne seguiranno) quali mosse compiere in futuro secondo le nuove linee di politica estera dettate dal ministro degli Esteri Subrahmanyam Jaishankar, già ambasciatore prima in Cina e poi negli Usa e che nel suo libro The India Way: Strategies for an Uncertain World (Harper Collins 2020) ha recentemente enunciato una strategia di lungo periodo che vede nell’India il nuovo punto archetipale di una entente cordiale tra Usa, Cina e Giappone. 

Come si vede la posta in gioco è altissima ed è su di essa che deve concentrarsi l’attenzione e non sulle gaffes di un presidente Usa anziano anche se esperto di politica estera come Biden. Del resto verso la Russia tutte le gaffes sono benvenute in un contesto di confronto diplomatico diretto a spostare l’accento sul ruolo dell’Indo-pacifico piuttosto che sull’Europa. È nelle terre dell’Heartland che si gioca la partita. La prova di ciò è nel fatto che il segretario di Stato Usa Antony Blinken sta negoziando con il governo di Kabul e i talebani un patto di pacificazione che consenta agli Usa di ritirare parte ingente delle truppe Usa dall’area. Ebbene, Blinken ha promosso la convocazione, sotto egida Onu, di un tavolo di colloquio coordinato a cui prenderanno parte Russia, Cina, Iran, Pakistan, India e Stati Uniti e… Turchia. Gli Usa vogliono che il vertice negoziale definitivo sia organizzato da Ankara, affidando in tal modo un ruolo nel sistema multilaterale anche a Recep Tayyip Erdogan; confermando l’importanza dell’alleanza con la Mezzaluna e sottolineando il ruolo politico dell’islam.

Non a caso in Alaska si porranno anche le basi della nuova fase di negoziazione del Trattato di non-proliferazione nucleare (Non-Proliferation Treaty, Npt) che rappresenta ancora, a tutt’oggi, l’unico strumento di portata globale in materia di  disarmo e non-proliferazione. Era entrato in vigore nel 1970 per una durata iniziale di 25 anni, esteso a tempo indefinito nel 1995 e conta tra i suoi Stati 191 Paesi, tra cui i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dotati dell’arma nucleare, ossia Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito. Esso, tuttavia, è l’espressione forse più alta del disordine internazionale in cui siamo immersi dopo il crollo dell’Urss e la crescita dopo il 2001 dell’unipolarismo Usa che di fatto non è cessato sino a oggi, da quando si inverò dopo la distruzione delle Torri Gemelle per mano del fondamentalismo sunnita. Non è un caso che l’ultima Conferenza di riesame del Trattato si svolse nel 2015 senza l’adozione di un documento finale consensuale per il mancato accordo sulla zona libera da armi di distruzione di massa in Medio Oriente. Questa questione non potrà non essere al centro dei colloqui. 

L’Ue è assente dalla partita. Ma fortunatamente non lo è la Nato, che ha assunto sulla questione indo-pacifica risoluzioni importanti. Ma per quanto concerne l’Ue, in costante polemica con la Nato, solo la Francia si è posta in grado operare, anche se con mezzi scarsissimi, in questa zona strategica del futuro mondiale. La potenza di terra tedesca trascina verso il fondo del mondo intero l’Europa, privandola della forza necessaria per continuare a essere quella potenza marittima e mondiale che potrebbe essere. Ma se si parla di Europa si parla sempre di altro: si parla solo di Ue, che Europa non è.

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