Mentre ci stiamo abituando a metafore di guerra per descrivere la nuova e spaventosa pandemia che colpisce alla cieca, mentre ci chiediamo quando finirà e che ne sarà di noi, uomini e donne del XXI secolo, mentre aspettiamo con un misto di speranza e di incertezza preoccupata cosa accadrà dopo, qualcuno sta pensando che la guerra si faccia utilizzando tutti i mezzi, anche cogliendo l’occasione del coronavirus.



Non può stupire allora che Stati Uniti e Cina si scambino accuse roventi su quale nazione abbia scatenato il virus. Se da una parte c’è Trump che chiama il morbo “virus cinese”, perché scappato dai laboratori chimici del centro di Wuhan, dall’altra abbiamo fonti semiufficiali cinesi accusare gli americani di aver approfittato della settima edizione dei Cism military world summer games, svoltasi dal 18 al 27 ottobre 2019 proprio nella città cinese di Wuhan, per diffondere in modo subdolo e premeditato il contagio.



Accuse spaventose che gettano una luce sinistra sullo stato delle relazioni tra le due super potenze. Accuse che se fossero sentite come vere e comprovate equivarrebbero a dichiarazioni di guerra. A parte l’uso del nucleare, che cosa c’è infatti di più spaventoso e vigliacco che utilizzare le armi chimiche, per giunta contro civili inermi e in periodo di pace? Strumenti bellici già definiti criminali e quindi banditi dalla Convenzione sulla proibizione delle armi biologiche, firmata il 12 aprile 1972 e in vigore dal 26 marzo 1975.

Questa breve premessa ci dice qualcosa su quale sia lo stato del mondo e in modo particolare sulle relazioni sino-americane, sulla diffidenza assoluta che le ispira, e quindi trattandosi dei due paesi che detengono le chiavi del mondo, dicono qualcosa sul futuro che ci aspetta.



In primo luogo, sulla Cina. Pechino ha affrontato con ritardo, nascondendo all’opinione pubblica e alla comunità scientifica internazionale, ma anche alla propria popolazione, il diffondersi del contagio. Il 17 novembre 2019 (fonte: South Chine Morning Post) vi sono stati nove casi, quattro uomini e cinque donne tra i 39 e i 79 anni. Solo però il 31 dicembre dello scorso anno la diffusione del morbo fu comunicata all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Ancora sottaciuta all’interno del paese, il presidente cinese Xi Jinping ne viene informato già il 7 gennaio 2020 durante una riunione a porte chiuse del Politburo, fatto riportato il 16 febbraio dalla rivista del Partito comunista cinese Qiushi. Dopodiché, a testimonianza dell’imbarazzo, il presidente Xi Jinping spariva dalla scena per ricomparire il 10 marzo ad epidemia quasi domata.

Da quel momento la Cina ha smentito chi paragonava il ruolo del coronavirus al disastro nucleare di Chernobyl nel 1986 per l’Unione Sovietica e la crisi di Suez nel 1956 per la Gran Bretagna, fatti che sancirono la fine dei due imperi. Anzi, da quel momento la Cina ha cercato di rifarsi una verginità, forte del suo successo gestionale dell’emergenza sanitaria, della sua capacità di sfruttare il soft power, mandando materiale sanitario indispensabile a fronteggiare la crisi nei paesi colpiti, e del semplice fatto che è il primo paese al mondo produttore di quei beni, comprese le mascherine, forniti anche agli Stati Uniti.

E ora veniamo agli Usa. Anche Washington ha gestito male la partita, non sfruttando il vantaggio temporale che aveva. All’inizio sottovalutando, minimizzando in modo irresponsabile e poi dichiarando un’emergenza che spaventa per molti motivi, e infine dando la colpa dell’epidemia alla Cina. Il fatto è che l’America non ha un sistema sanitario in grado di fornire prestazioni sufficienti e in tempo per tutta la popolazione. Basti dire che non ha nemmeno un numero di kit decente per effettuare i tamponi ed è costretta a importare farmaci e altro materiale medico, come si è appena detto, dal suo rivale, dalla Cina.

In secondo luogo, anche gli Usa rischiano una regressione economica significativa, che si sovrappone alla crisi della sua industria petrolifera causata dal crollo dei prezzi del greggio, e tutto questo nonostante un sistema bancario ristrutturato, ben più solido dopo la crisi del 2008 e il pompaggio continuo di dollari da parte della Fed.

Quello che infine si può dire è che, se è presto per affermazioni perentorie e previsioni, gli Usa abbiano molto più da perdere da questa crisi che la Cina. Certo, il Celeste Impero subirà un danno economico non indifferente, sarà rallentata la sua entrata nel club dei paesi con un’economia matura.

Sono però gli Stati Uniti che devono dimostrare al mondo di essere ancora capaci di svolgere il ruolo di super potenza globale. Nazione leader in grado di offrire soluzioni ai problemi che la globalizzazione comporta, capace di occuparsi, certo a suo modo, del bene collettivo e quindi produrre e coordinare una risposta buona per tutti gli altri paesi. Ma per tenere un impero, bisogna prima saper tener pulito a casa propria.

Quello che possiamo fare è solo stare a vedere alla fine dell’emergenza quale nazione avrà guadagnato in autorevolezza, legittimità e forza materiale.

L’alternativa a una dinamica conflittuale sarebbe che finalmente i poli del potere mondiale, in primis Usa e Cina, e poi Russia ed Europa, approfittando dell’onda di una emergenza oggettiva, riuscissero a elaborare una strategia sanitaria e, per affrontare il dopo, economica e sociale comuni.

Ma affinché si dia inizio a un multilateralismo condiviso, è necessario in primo luogo che Washington, cioè la super potenza, sia disposta a fare il primo passo. L’inizio però non è promettente. Certo è che gli Stati Uniti non hanno offerto nessun sostegno economico né d’altro tipo ai popoli colpiti, tra cui l’Italia, che può ringraziare, oltre alla Cina, la Russia di Putin e Cuba.

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