In un mondo in cui gli equilibri geopolitici sembrano essere in continuo mutamento, la convergenza degli interessi russi e cinesi sembra rappresentare la grande novità del 2019, saldando un rapporto che dalla crisi della Crimea del 2014 in poi si è fatto progressivamente più stretto. Sono molti a interrogarsi sulla vera natura dell’avvicinamento fra due potenze le cui aspirazioni imperiali spesso sono finite per collidere. In molti sono pronti a scommettere contro questa “inusuale” alleanza, ma il processo di avvicinamento fra le due grandi potenze viaggia su due solidi binari, ovvero quello energetico e quello militare.



Il progetto “Power of Siberia” prevede la costruzione di un gasdotto lungo 3mila km dal valore di 400 miliardi di dollari, che legherà fortemente le economie dei due giganti e di fatto disinnescherà una questione geopolitica che per molti dovrebbe prima o poi deflagrare, da quando, cioè, nel 1856 la Russia zarista estese la sua influenza politica e militare sulla Manciuria, piegando poi con uno dei “trattati ineguali” la Cina.



“Power of Siberia” ha una valenza simbolica e geo-economica epocale: non è un caso che alcuni fra i più avveduti analisti abbiano parlato di una “New era of natural gas geopolitics” e che addirittura Putin abbia parlato di un “evento storico” e Xi Jinping di un “progetto fondamentale di cooperazione bilaterale nel settore dell’energia”. Se un tempo l’Estremo Oriente era terra di contese, adesso è attraversato da un’infrastruttura che lega in modo indissolubile la Russia – il più grande esportatore mondiale di gas naturale – e la Cina che, invece, ne rappresenta il principale mercato di importazione globale.



Dal punto di vista strettamente militare le esercitazioni di Vostok 2018, che la propaganda russa ha presentato come le più vaste dal 1981, hanno registrato per la prima volta la cooperazione degli eserciti cinese e russo, una novità il cui portato è ancora tutto da decifrare, ma che è un’ulteriore conferma che l’avvicinamento fra Russia e Cina procede su più livelli.

A fronte di queste considerazioni, la tendenza a sovrastimare il rischio che la costante geopolitica della contesa per le zone di confine dell’Asia nord-orientale sia destinata a ripresentarsi, è figlia di una visione determinista ed eurocentrica. Ad ogni modo, indipendentemente dal fatto che si scommetta contro o a favore questo avvicinamento, ciò che andrebbe fatto emergere sono i rapporti di forza interni alla relazione russo-cinese.

In una prospettiva che mette sul tavolo il peso reale dei due nuovi alleati, risulta evidente che la Russia in questo momento rappresenta il junior partner della relazione, che deve guardare alla Cina per uscire dall’isolamento in cui è precipitata dopo la crisi del 2014, anche a costo di condividere una parte del suo vantaggio strategico nei settori militari ed energetico con un “alleato” il cui peso risulta ogni giorno più ingombrante. Alcuni osservatori molto critici nei confronti del governo Putin hanno rimarcato che è la Russia ad avere bisogno della Cina – come dimostrerebbero i costi del gasdotto “Power of Siberia” che si suppone pesino maggiormente su Gazprom -, ma ciò che sembra importante, è ricordare che la relazione russo-cinese ha radici che precedono la crisi di Crimea del 2014, e vanno ricercate nel 2001 con la nascita dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, una vera e propria alleanza geo-strategica che non a caso si basava sulla cooperazione nei settori energetico e militare.

Il fatto che la Cina ricoprirà un ruolo chiave nella ricostruzione della Siria la dice lunga sulla qualità della relazione russo-cinese. Facendo entrare la Siria nella Belt and Road Initiative (BRI), l’influenza cinese nel teatro del Mediterraneo continua ad aumentare, mostrando al contempo le virtù di una strategia fatta di investimenti in infrastrutture e attività produttive, la natura della strategia russa che mira più a non perdere posizioni che a guadagnarle – le basi navali di Tartus e Latakia – e i limiti di quella Usa che alterna disimpegno e interventi che rischiano di incendiare il Medioriente.

Il legame russo-cinese rappresenta, quindi, la grande questione geopolitica del 2020 e saranno i paesi più direttamente interessati dalle conseguenze di questa alleanza a fornirci il banco di prova della sua validità. Turchia, Iran e India cambieranno il loro atteggiamento sullo scenario geopolitico in base alla modalità con cui Russia e Cina procederanno nella loro “alleanza”. Un gioco in cui probabilmente l’Iran si legherà molto di più alla Russia e alla Cina, l’India proverà a controbilanciare la crescente influenza cinese e la Turchia giocherà in modo sempre più disinvolto il suo ruolo nel teatro mediorientale.

Non convince, quindi, la spiegazione puramente “domestica” e legata a ragioni elettorali della decisione di Trump di far assassinare il generale iraniano Souleimani, quanto piuttosto bisognerebbe provare a capire come i soggetti in campo pensano le alleanze e gli equilibri di forza nel teatro mediorientale. Uno sforzo di immaginazione difficile in un’epoca di caos sistemico, ma che può risultare vano senza una realistica valutazione dell’impatto della “strana” alleanza fra Russia e Cina e delle intenzioni di chi intende metterla in crisi.

Il 2020 fornirà le prime risposte a questioni di questo tipo e dirà se il mondo si sta incamminando verso un nuovo equilibrio multipolare o verso una fase in cui si radicalizzerà l’incertezza di questa fase.