Caro direttore,
da quarantott’ore i media di tutto il mondo s’inseguono nel ritenere probabile, addirittura inevitabile un’escalation militare fra Usa e Iran dopo l’uccisione del generale Soleimani. Per la verità già prima – nel giorno del Natale cristiano – c’era stato chi aveva annunciato “la preparazione a un limitato confronto militare con l’Iran”: è stato il capo di stato maggiore della Difesa israeliana, generale Aviv Kochavi.



L’allarme-avvertimento è giunto alla vigilia delle primarie interne al Likud – il partito del premier Bibi Netanyahu – in vista del voto politico anticipato del prossimo 5 marzo, il terzo in meno di un anno. E la mattina del 26 dicembre – il giorno delle primarie che hanno deciso a larga maggioranza la ricandidatura del premier in carica da oltre un decennio – su Haaretz, principale quotidiano dell’opposizione laico-progressista a Gerusalemme, campeggiava questo editoriale: “A Netanyhau non dovrebbe essere consentito di iniziare una guerra con l’Iran per salvare se stesso”.



Non è mancato chi – nel commentare a caldo l’operazione Soleimani – ha ipotizzato uno spericolato diversivo geopolitico voluto dal presidente Donald Trump per distogliere l’attenzione politico-mediatica dalla procedura di impeachment in corso a suo carico presso il Congresso di Washington. La congettura non appare impropria: come peraltro non appare fuori luogo cercare nel blitz di Baghdad una dinamica collaterale a Gerusalemme. Così come Trump negli Usa, il suo grande alleato tuttora a capo dell’esecutivo israeliano si ritrova sotto impeachment per sospetta corruzione, all’inizio di una difficile campagna elettorale: tanto che Netanyahu – poche ore prima dell’eliminazione di Soleimani – si è risolto a chiedere l’immunità parlamentare. Un passo al quale tutti gli oppositori lo stavano attendendo al varco (anche l’ex alleato della destra religiosa Avigdor Lieberman sembra per ora orientato a negare lo scudo elettorale al premier).



È ormai chiaro a tutti che il futuro di Netanyahu – e forse quello della presidenza Trump negli Usa e di più ampi equilibri geopolitici – potrebbe decidersi nelle prossime settimane piuttosto che al voto di marzo. Per questo non ha sorpreso nessuno il linguaggio particolarmente duro usato da Netanyahu in un insolito discorso televisivo alla nazione: nel quale ha ribadito il diritto a difendersi da “un’applicazione selettiva” della legge, accompagnata da “fughe di notizie continue e tendenziose, e da un lavaggio collettivo del cervello per creare una sorta di tribunale da campo”. Nelle scorse settimane il premier aveva denunciato apertamente “un tentativo di colpo di Stato” ai suoi danni.

L’escalation Usa-Iran pare intanto mettere sempre più alla prova l’intera comunità israelita internazionale. Il caso italiano offre di per sé spunti significativi. Firme giornalistiche di primo livello non solo in Italia – come il direttore della Stampa, Maurizio Molinari o Fiamma Nirenstein, opinionista del Giornale ed ex parlamentare del centrodestra – si sono mostrate pronte, pur con specifiche intonazioni, nel ricondurre la nuova crisi mediorientale a un approccio classico: quello che postula la sicurezza dello Stato ebraico come priorità assoluta e il diritto-dovere degli Stati Uniti di intervenire quando questa viene messa in discussione.

Ma negli stessi Usa (abitati dalla maggiore comunità della diaspora ebraica) le prese di posizione si sono divise: ricalcando quasi senza soluzione di continuità quelle seguite al dicembre di aggressioni antisemite a New York e al controverso executive order di Trump per contrastare l’antisemitismo nei campus statunitensi.

Anche da queste dinamiche politico-mediatiche sembra emergere il forte impatto potenziale dell’anno elettorale che si aprirà in Israele e si concluderà negli Usa (è già stata in qualche modo sintomatica la recente sconfitta del Labour britannico, apertamente avversato dalle autorità religiose ebraiche di Londra per le posizioni critiche verso Israele).

Le ricandidature di Netanyahu e Trump sembrano dunque divisive anche all’interno del mondo israelita, premendo sulla consolidata identificazione fra nazione, fede religiosa e Stato, sia dentro Israele che per la Diaspora. I punti d’arrivo di una transizione che sembra andare oltre la fine del “regno” del premier non appaiono di facile predizione. Ad esempio, Gideon Sa’ar – ex ministro degli Interni e “buon perdente” interno alle primarie Likud – non è privo di fama di cool telavivian: di sintonie con il nuovo establishment tecno-finanziario sviluppatosi entro i confini dello Stato israeliano, apparentemente lontano anni luce dall’espansionismo dei coloni ultra-ortodossi nei Territori palestinesi.

Ma anche un altro leader già emerso nell’ampio centrodestra di Gerusalemme – il ministro della Difesa, Naftali Bennett – ha un curriculum che val la pena di rammentare. È nato ad Haifa da immigrati americani del 1967 (poco dopo la guerra dei Sei giorni). È stato combattente operativo nelle forze speciali dell’esercito. Meno che trentenne ha lanciato negli Usa una start-up tecnologica nei servizi di protezione delle reti web, replicando poi in Israele nel computer clouding (entrambe le iniziative si sono concluse per Bennett con sostanziosi successi finanziari). Dal 2013 è uno dei ministri-chiave di “King Bibi”: Educazione, Economia (promuovendo l’apertura verso Russia e Cina), Culti e Diaspora. Netto oppositore della soluzione “due Stati” per la Palestina, ha sostenuto l’integrazione della popolazione arabo-israeliana (anche femminile) nel mondo del lavoro. Ma non è favorevole a integrazioni spinte che vadano a minare l’identità delle comunità israelite all’estero. Non stupisce che Bennett sia un fan aperto di Trump, presidente popolare a Wall Street. E come già in parte avvenuto nel 2016, molti osservatori tornano a domandarsi se il voto ebraico alle presidenziali Usa di novembre rispecchierà davvero la tradizionale sensibilità democrat tuttora narrata dall’intellighenzia liberal delle università e dei media.

In parallelo, i sondaggi in Israele restano per ora nebulosi sulle chance del classico generale laburista Benny Gantz (al suo terzo tentativo alla guida di “Blu e Bianco”) di abbattere Netanyahu per via politica, con il fine apparente di restaurare quello che – almeno fino a dieci anni fa – era il solo sionismo riconosciuto.