La presidenza di Joe Biden ha confermato l’ostilità degli Stati Uniti verso la Russia, ostilità per diversi aspetti discutibile, se non altro perché spinge Mosca ad avvicinarsi a Pechino, attuale principale avversario di Washington. Ciò malgrado gli interessi di Russia e Cina non appaiano coincidenti, come dimostrato anche in un passato in cui i due Paesi erano accomunati dall’ideologia comunista.



La posizione di Washington ha pesanti riflessi sulla Nato, presso la quale era finora operante una missione russa di collegamento, risalente ai tempi in cui la Nato offrì una collaborazione alla Russia, prima di tornare a definirla l’avversario principale. La recente espulsione di otto suoi diplomatici, accusati di essere agenti sotto copertura, ha provocato la reazione di Mosca, che ha sospeso del tutto la missione.



Anche sul fronte Unione europea non tutto corre liscio: una Nato a conduzione statunitense e con un segretario il cui Paese, la Norvegia, è fuori dall’Ue non è particolarmente sensibile ai possibili diversi interessi dell’Unione.

Questo problema è stato sollevato da Mario Draghi, lo scorso 7 ottobre, in una conferenza stampa dopo il vertice Ue in Slovenia. Draghi prende spunto dal rovinoso ritiro dall’Afghanistan e dalla sostituzione della Francia con gli Usa nell’acquisto di sottomarini nucleari da parte dell’Australia. Accanto ai problemi di sostanza, Draghi sottolinea per entrambi i casi la mancanza di comunicazione, che “ci dicono che la Nato sembra meno interessata dal punto di vista geopolitico all’Europa e alle zone di interesse dell’Europa e ha spostato le aree di interesse ad altre parti del mondo”. La cronaca dell’Ansa continua con Draghi che chiede “cosa può fare l’Ue e i suoi Paesi membri per contribuire a guidare le scelte della Nato”, concludendo che “Il loro ruolo appare, soprattutto di recente, marginale ormai”.



La politica americana verso la Russia ha finito per aumentarne il ruolo internazionale, come in Medio Oriente o in Libia, e Mosca potrebbe perfino ricavare qualche vantaggio dalla fuga di Washington in Afghanistan. I riflessi di tale politica non sono positivi per i Paesi europei, vedasi per esempio in materia di immigrazione.

Inoltre, lo scontro diretto con la Russia non avviene sullo Stretto di Bering, bensì in Europa, dove diversi Paesi già sotto il regime sovietico temono un ritorno del dominio russo. Un timore che è sostenuto dalla politica di Putin, che utilizza a sostegno del suo potere il nazionalismo russo e il ricordo della grandezza dell’impero zarista.

La non perfetta coincidenza di interessi tra Stati Uniti ed Europa è dimostrata dagli eventi in Ucraina e in Bielorussia. Per gli Stati Uniti questi due Paesi sono essenzialmente un’occasione per contrastare e mettere in difficoltà la Russia, ma per l’Europa costituiscono un costante fattore di disordine sulle proprie frontiere. Sono però anche un esempio di come Europa e Russia potrebbero trarre vantaggio da un confronto su queste situazioni non fondato su una precostituita ostilità. Questo senza impedire le doverose valutazioni del comportamento del governo russo, a partire dalla repressione del dissenso. In fondo, Europa e Stati Uniti mantengono solidi rapporti con molti altri Stati di ben dubbia democrazia.

L’incombente crisi su approvvigionamento e prezzi del gas naturale ha riportato alla ribalta la questione del Nord Stream 2 e della sua importanza per i rifornimenti di gas all’Europa. Si è, però, reso ancor più evidente il danno che esso porta alle disagiate finanze dell’Ucraina, facendo cessare in gran parte la sua funzione di via di transito del gas russo verso l’Europa. Né ci si può aspettare da Putin un atteggiamento comprensivo, per di più con le sanzioni comminate dall’Ue su spinta statunitense.

Nella gestione della difficile situazione ucraina, l’Ue si è accodata alla posizione dell’Usa di scontro frontale con Mosca, rinunciando a un intervento diretto a raggiungere un accordo su una formula federativa che potesse rispettare le aspettative delle componenti ucraine e russe. Anche sulla questione della Crimea, attribuita all’Ucraina con un ukase sovietico, si sarebbe dovuto suggerire di permettere agli abitanti della penisola di esprimersi anticipatamente e liberamente sul proprio destino.

La Bielorussia sembrerebbe porre meno problemi da un punto di vista etnico, essendo i bielorussi più dell’80% della popolazione. Il punto principale è come liberarsi dal dittatore Lukashenko e su questo è imperniata l’attuale crisi, con il suo seguito di dure repressioni.

La solita strategia occidentale di imporre sanzioni rischia solo di rendere più difficile la vita della popolazione, senza intaccare più che tanto il potere di Lukashenko. Costui era riuscito finora a mantenere un atteggiamento “bilanciato” tra la Russia, da cui dipende economicamente e finanziariamente, e l’Ue, cercando di dimostrarsi non dipendente da Mosca. Infatti, fino agli ultimi eventi, a Bruxelles non sembravano troppo preoccupati per la situazione interna della Bielorussia.

Anche in questo caso, una soluzione sembra impossibile senza un intervento della Russia, tanto più che Putin parrebbe restio a schierarsi toto corde con Lukashenko, o a rischiare un intervento militare diretto. D’altro canto, la posizione di stallo che potrebbe venire a crearsi finirebbe per favorire principalmente Lukashenko, con ulteriori sofferenze per i bielorussi.

Ancora una volta, un’azione concordata della Ue con la Russia potrebbe forse portare a una soluzione migliore dei fallimentari regime changing progettati dagli Usa.

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