Al World Economic Forum di Davos, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, fresco della conclusione di un vasto accordo commerciale con la Cina, ha potuto battere i pugni sul tavolo con l’Europa, minacciando misure restrittive nei confronti delle importazioni dall’Unione europea non solo in ottemperanza della sentenza dell’organo giurisdizionale dell’Organizzazione mondiale del commercio, ma anche in ragione della web tax annunciata da Francia (e Italia). Per il momento, peraltro, nessuna decisione è stata presa; anzi, si parla di un’intesa bilaterale Trump-Macron che sospenderebbe il tutto in attesa di un più vasto negoziato.



Era da attendersi che, risolte almeno per il momento le vertenze commerciali con la Cina, la Casa Bianca avrebbe rivolto la propria attenzione, non necessariamente benevola, al Vecchio Continente. Esprimono preoccupazione in materia gli economisti del Peterson Institute for International Economics. Basta sfogliare la stampa americana per toccare con mano come l’accordo Usa-Cina sia stato un successo di politica interna del Presidente Donald Trump. Ora la Casa Bianca potrebbe voler chiudere a proprio vantaggio conti in sospeso in materia di acciaio e alluminio, auto, imposte digitali (nei confronti, come si è detto, in particolare di Francia e Italia). Sono tutti comparti in cui il suo elettorato è molto sensibile e ha il pretesto dei “dazi di ritorsione” autorizzati dall’Omc al termine di una lunghissima vertenza sui sussidi all’Airbus.



Per questo motivo, il Commissario europeo responsabile del commercio internazionale e della politica commerciale, l’irlandese Phil Hogan, è corso a Washington, dove si è trattenuto dal 14 al 21 gennaio. Hogan è considerato un “duro”, un’arma a doppio taglio per una missione del genere. Ha minacciato ricorso all’Omc, il cui organo giurisdizionale, però, non è operativo in attesa del completamento delle nomine dei giudici (procedura, per il momento, bloccata dalla Casa Bianca).

L’Ue ha comunque serie difficoltà a intavolare un negoziato commerciale complessivo con gli Usa. Com’è noto, il Trattato di Roma affida negoziati di questa natura alla Commissione, su mandato del Consiglio dei ministri degli Stati membri preposti al commercio internazionale. Nell’ambito di tale Consiglio, la Francia ha posto il veto a trattative che riguardassero l’agricoltura, settore senza il quale gli Usa non saranno disposti a sedersi a nessun tavolo negoziale, ma al più a trattare singoli prodotti o comparti in via bilaterale, e in barba alle regole Omc. All’interno dell’Ue (e quindi nei confronti degli Usa), poi, l’Italia è in una posizione istituzionalmente debole perché a nessun Viceministro e Sottosegretario sono state conferite deleghe in materia di commercio internazionale (quando la materia era trattata dal ministero dello Sviluppo economico c’era un viceministro delegato) e, in questa fase, il Ministro non ha il tempo e l’attenzione per occuparsene in modo esauriente.



Nel contempo, Washington e Pechino hanno pubblicato il testo dell’accordo firmato alla Casa Bianca il 15 gennaio (ma non i protocolli allegati che, sempre contrariamente alle disposizioni Omc, sono stati secretati). Chi si dovrà accollare, volente o nolente, il costo degli effetti collaterali dell’accordo Usa-Cina sugli scambi? Intendiamoci: l’accordo è comunque positivo perché evita (o quanto meno ritarda) una guerra commerciale tra le due maggiori potenze economiche mondiali, guerra che avrebbe potuto recare gravi danni al sistema commerciale mondiale. Ha, però, implicazioni pericolose per altri player grandi e piccoli del commercio internazionale e per la stessa Omc.

Nel lontano 1950, nel libro The Customs Union Issue, l’economista Jacob Viner coniò i termini, ancora oggi in uso, di trade creation e trade diversion. L’occasione puntuale veniva allora fornita dalla compatibilità dei progetti di unione doganale in Europa con le regole della non discriminazione e della reciprocità, su cui si stava cercando di ricostruire il sistema del commercio mondiale. Trade creating sono gli accordi che, pur se discriminatori, portano a una creazione netta di commercio internazionale. Trade diverting sono, invece, quelli che comportano una diversione di scambi senza una creazione netta e che, quindi, rendono il sistema meno efficiente e implicano una perdita netta.

Sulla base di quanto pubblicato, la parte del trattato relativa agli scambi agricoli pare, senza dubbio, trade diverting e il costo della diversione grava sull’Unione europea, e in particolare sull’Italia, oltre che su alcuni Paesi dell’America Latina e dell’Asia orientale. L’impegno preso dalla Cina ad aumentare di 50 miliardi di dollari l’anno, per i prossimi tre anni, l’import di prodotti agricoli dagli Usa spiazzerà, in gran misura, esportazioni di prodotti agricoli di altri Paesi verso quello che un tempo era chiamato il Celeste Impero. Altri comparti che potrebbero essere colpiti sono le esportazioni di automobili ibride ed elettriche, di macchinari agricoli, di macchine utensili.

Occorre, tuttavia, notare che – come quantizzato da uno studio delle Confindustria diramato in questi giorni- gli accordi bilaterali dell’Ue con Canada, Corea del Sud e Giappone hanno comportato deviazioni degli scambi a favore dell’Europa in materia di autoveicoli, di dispositivi medici e prodotti farmaceutici, d’elettronica e di beni alimentari di alta qualità (si pensi al riconoscimento e alla protezione delle indicazioni geografiche). L’Italia è stato uno dei Paesi che ha tratto maggior vantaggio da queste intese bilaterali non perfettamente in linea con le regole Omc. Quindi, l’Ue ha difficoltà a scagliare la prima pietra.