LA CORTE CEDU CONDANNA L’ITALIA PER LA MATERNITÀ SURROGATA

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo (CEDU) ha condannato l’Italia per aver violato i diritti di una bambina nata nel 2019 in Ucraina da utero in affitto (o, più politicamente corretto, per Gestazione per Altri): nei fatti, lo Stato italiano avrebbe impedito il «riconoscimento legale del rapporto di filiazione con il padre biologico, e facendo di lei un’apolide».



L’Italia così ha violato il diritto alla vita familiare e privata della bambina di cui non svela le generalità, chiamata con nome di fantasia “Sonia”: la Corte Ue dei Diritti ha così stabilito che le autorità italiane debbano ora versare alla bimba 15 mila euro per danni morali e 9.536 per le spese legali sostenute dal padre biologico e la madre “intenzionale”. Il tema dell’utero in affitto resta ancora centrale nei tanti casi giudiziari che si “affollano” tra Italia e il resto dell’Europa: per dire, la Corte CEDU che ha condannato il nostro Paese oggi era la stessa che solo lo scorso giugno bocciava il ricorso di alcune coppie gay confermando il divieto imposto dall’Italia su utero in affitto, definendo «legittima la decisione italiana sul no alla trascrizione dei figli da maternità surrogata».



SONIA, LA BIMBA DALL’UCRAINA NATA DA UTERO IN AFFITTO: LA STORIA

La storia della bimba “Sonia” era stata raccontata nelle scorse settimane da “La Repubblica” che prendeva a pretesto il caso di maternità surrogata dall’Ucraina – uno dei pochi Paesi in cui è consentito la vendita dei bambini dopo GPA – per contestare l’indirizzo del Governo Meloni che ha ribadito il pieno no all’utero in affitto (comunque vietato per legge in Italia da decenni). A portare il caso alla Corte CEDU di Strasburgo nel settembre del 2021 sono stati il padre biologico e la madre intenzionale della bambina, entrambi cittadini italiani, assistiti dall’avvocato Giorgio Muccio: i genitori si erano visti rifiutati dagli uffici dell’anagrafe e dai tribunali italiani il riconoscimento legale del legame con la bimba.



In questo momento Sonia vive sì con i genitori nel Vicentino ma non ha un cognome, una tessera sanitaria e nemmeno un documento di identità: «Non può frequentare la scuola pubblica né essere curata in un ospedale pubblico, né avere il pediatra di base. Ma, soprattutto, Sonia non ha una patria. E’ apolide», contesta “La Repubblica”. Si legge così nel ricorso presentato alla Corte europea: «il rifiuto delle autorità nazionali di riconoscere il padre biologico e la madre intenzionale come suoi genitori, da un lato, e il fatto che non avesse la cittadinanza, dall’altro, la ponevano in uno stato di grande incertezza giuridica». La sentenza giunta stamane da Strasburgo dà ragione alla famiglia e riconosce lo status di cittadinanza italiana alla piccola: «è stata tenuta fin dalla nascita in uno stato di prolungata incertezza sulla sua identità personale. I tribunali italiani hanno fallito nell’adempiere all’obbligo di prendere una decisione rapida per stabilire il rapporto giuridico della bimba con il padre biologico».