Tra le pratiche che consentono a coppie (di qualsiasi tipo e affette da qualsiasi limite procreativo) di soddisfare il proprio desiderio di genitorialità, la maternità surrogata sembra essere una sorta di ultima spiaggia. Non è una pratica frequente perché, per accedervi, si devono superare non solo ostacoli normativi, ma anche molti tabù e abbattere molti confini che sembravano porsi al limite dell’esperienza umana fin qui conosciuta. Eppure succede. Così come succede che, poi, il bambino generato all’estero entri nell’orbita dell’ordinamento del nostro Paese dove la pratica è vietata.



E non è solo vietata da una legge (la legge 40/2010), rispetto alla quale i giudici hanno compiuto un’opera di restyling che ne ha in molti aspetti capovolto le logiche e i valori.

Vi è un diffuso sentimento di malessere al pensiero che un figlio possa essere “commissionato” e che una donna venga messa nelle condizioni di generare un figlio che, per definizione, non sarà mai “suo”.



Molta cultura a favore di questa pratica cerca di esorcizzare questo malessere ora mettendo in vetrina casi di personaggi noti che appaiono felici di quanto hanno acquisito, ora cercando di offrire argomenti a favore anche benevolmente formulati (se una donna lo fa per senso altruistico, se non vi è passaggio di denaro eccetera) e molti vi danno ascolto.

Chi ha studiato in profondità il fenomeno ne ha messo in luce le problematiche. I contratti di surrogazione di maternità contengono clausole che – se applicate a qualsiasi altro contratto – sarebbero contrarie all’ordine pubblico: chi sancisce che il figlio debba essere sano e che, se malato, debba essere abortito; chi chiede alla donna di tenere comportamenti adeguati al suo stato ma che normalmente sono consentiti; e molto altro ancora. Ma anche chi non ha approfondito il tema può convenire che “gestare” per altri è un comportamento che, benché tenuto da un soggetto consenziente, rovescia e forse – in parte – inquina il senso comune della maternità, creando uno strappo che non ha eguali tra la donna gestante e chi poi “prende” il bambino. Uno strappo  in quel profondo del sé che, quando pensa al sé e alle proprie esperienze di madre e di figlia, conserva, anche incoscientemente, il senso della  sacralità. Non siamo noi a “fare” i figli e, anche se li “facciamo”, è poi sempre una sorpresa scoprire che si sta formando in me uno che è altro da me, che custodisco ma che non è e non sarà mai “mio”.



Ora, tutto questo pare non contare per una materialità che vuole a tutto consentire, in cui anche l’intimità del corpo femminile viene portata allo scoperto e gestita come qualsiasi altro prodotto. È anche questo un “universale” dei nostri tempi: il consenso della donna salva la pratica, non importa se questo consenso sia stato determinato da cause non sempre positivamente orientate, quali uno stato di bisogno o anche semplicemente l’attrattiva del guadagno.

Al nostro legislatore tutto questo non piace: solo alla maggioranza dei votanti in Parlamento, non a tutti, ma questo non è mai un ostacolo all’entrata in vigore di una legge. Si discuterà delle conseguenze giuridiche di questo nuovo “reato”, forse difficile da perseguire, forse inutile, forse dettato da visioni unilaterali, forse solo un “messaggio” che segnala un disvalore (dopo tanto parlare di “valori”). Ma che fin d’ora si apra un discorso libero e non ideologico su queste pratiche e non solo su di esse. Della condizione femminile si parla tanto e utilmente. Anche questa sia un’occasione di confronto tra diversi e offra momenti di riflessione in cui – soprattutto ai giovani – si dica il senso che muove ad un impegno, quello del generare, che sembra in questo momento così lontano, desiderato ma apparentemente non praticabile, non vissuto per mille motivi, anche economici. Che sia un aiuto a capire di più, a capirci di più e più nel profondo.

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