L’utero in affitto è una di quelle pratiche lungamente discusse e poco apprezzate, tanto in Italia quanto nel resto del mondo. Concretamente, per chi non lo sapesse, si tratta di una pratica medica per cui una donna fertile mette a disposizione il suo utero delle coppie che, per una ragione o un’altra, non possono avere figli, ricevendo nella maggior parte dei casi un indennizzo economico, talvolta anche piuttosto cospicuo. Una pratica medica nata per aiutare, appunto, le coppie in difficoltà ma desiderose di provare la gioia di avere figli, ma che è ben presto diventata un vero e proprio business, soprattutto in America. E per capire meglio i retroscena dell’utero in affitto, La Stampa ha ascoltato la testimonianza di Consuelo.
Utero in affitto: “Mi hanno dato 15mila dollari, ma…”
Insomma, dal punto di vista sociale e medico l’utero in affitto è una vera e propria rivoluzione, ma si sa anche che la medicina e gli affari non vanno particolarmente d’accordo. A dimostrarlo, tristemente, è la storia di Consuelo, trent’enne ispanica che affittò il suo utero ad una coppia omosessuale di Chicago. Attirata dal ricevere l’impressionante somma di 15mila dollari, utilissimi per il sostentamento della sua famiglia (con due figli) in difficoltà.
A Consuelo, però, non dissero diverse cose sull’utero in affitto, tra cui alcune anche gravi. Nei nove mesi di gravidanza non avrebbe potuto cambiare idea, ma se la coppia avesse interrotto le pratiche sarebbe stata costretta ad abortire. Inoltre, in qualsiasi momento dei medici sarebbero potuti arrivare a casa sua per dei controlli, che scoprì non essere medici, ma più fisici. Le vennero dati degli ormoni, che le causarono nausea, vomito e talvolta svenimenti, senza che nessuno la mettesse in guardia. Consuelo, la donna che ha dato in affitto il suo utero, non venne neppure informata del dolore psicologico che si prova a separarsi da un “figlio” che ti cresce dentro e dal quale sai che dovrai separarti. In seguito al parto, inoltre, chiedendo ad altre madri “in affitto” ha scoperto che i committenti avevano pagato almeno 5 volte la cifra che lei ha ricevuto (ovvero circa 75mila dollari), soldi finiti nelle tasche dell’organizzazione che ha eseguito la pratica medica.