ITALIA CONDANNATA DALLA CEDU PER L’UTERO IN AFFITTO MA LE RESPONSABILITÀ SONO NEI TRIBUNALI

L’Italia è stata ufficialmente condannata ieri dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per un caso di utero in affitto, ma lo deve in sostanza non tanto per le scelte portate dai Governi – Meloni e precedenti – ma per la responsabilità del Tribunale di Vicenza e dell’ufficio anagrafe. I commenti giunti a livello politico sulla sentenza della CEDU sul caso di “Sonia”, la bimba nata nel 2019 in Ucraina da utero in affitto e rimasta sostanzialmente “apolide” fino all’ultimo ricorso di una coppia veneta (padre biologico e madre “intenzionale”), puntano a definire il Governo Meloni come responsabile del mancato via libera all’utero in affitto; qui il primo errore, essendo i fatti riferiti tra il 2019 e 2021 sotto i Governi Conte-2 e Draghi.



Ma c’è di più: al Centrodestra che con il Ministro Piantedosi ha ribadito il secco no alla trascrizione all’anagrafe dei figli nati da maternità surrogata, viene ora contestato da sinistra che la sentenza della CEDU di fatto ribalti l’azione del Governo Meloni, obbligandoli al dietrofront sul tema GPA (gestazione per altri). In realtà però, se si legge bene la sentenza della Corte dei Diritti, a rimanere sul tavolo degli “imputati” sono i giudici e i tribunali che hanno portato questo caso-limite compiendo errori in serie. «I tribunali italiani hanno fallito nell’adempiere all’obbligo di prendere una decisione rapida per stabilire il rapporto giuridico della bimba con il padre biologico», si legge nella sentenza della CEDU, che comunque accenna in altri passaggi («il rifiuto delle autorità nazionali di riconoscere il padre biologico e la madre intenzionale come suoi genitori») anche al dato politico dimostrando come in ambito europeo comunque l’accesso all’utero in affitto sia uno dei punti di massima “pressione” sulle singole legislazioni nazionali.



PERCHÈ E DOVE HANNO SBAGLIATO I GIUDICI SUL CASO DI “SONIA”

Ma tornando a “bomba”, resta il dato: i giudici del Tribunale di Vicenza avrebbero sbagliato a gestire una situazione molto limite che pone il divieto di legge sull’utero in affitto in Italia in discussione. Primo errore avviene subito nel 2019: dopo la nascita della bimba in Ucraina da madre surrogata, la coppia chiede all’anagrafe il riconoscimento della bambina: Comune rifiuta e la coppia ricorre in Tribunale, ma con un errore in quanto viene richiesto il riconoscimento genitoriale di entrambi, procedura vietata dalla legge (filiazione è legittima in Italia solo per il padre biologico, l’altro partner deve procedere con l’adozione).



«I magistrati hanno rigettato la richiesta per intero, senza separare le posizioni e i rispettivi diritti dei due genitori (anzi, il diritto legittimo del padre biologico», spiega “Libero” il passaggio da cerchio rosso prodotto dal Tribunale vicentino. Secondo errore, il Tribunale si pronuncia e non accoglie la richiesta, nonostante la procedura sia stata sanata: i tribunali hanno violato l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – si legge nella sentenza – «per quanto riguarda l’instaurazione di un rapporto giuridico genitore-figlio tra la ricorrente e il padre biologico», mentre non vi è stato alcun dolo nella madre a cui la legge italiana permette di adottare. Perciò, conclude la CEDU, «Rifiutando di inserire gli estremi dell’atto di nascita ta ucraino della ricorrente nel registro dello stato civile italiano, nella misura in cui designava E.A.M. come sua madre, lo Stato convenuto non aveva oltrepassato i suoi margini di discrezionalità». Insomma, la bocciatura e condanna italiana è prevalentemente una questione giuridica di “mala giustizia” e non un attacco alle scelte politiche del Governo: anche per questo lo scorso giugno la stessa Corte CEDU aveva dato ragione allo Stato italiano bocciando i ricorsi di alcune coppie gay che si erano viste rifiutare la trascrizione dei figli dopo utero in affitto all’estero.