La questione dell’utero in affitto è tornata centrale nelle pagine di cronaca dopo che l’attivista americana Jennifer Lahl (fondatrice del movimento Stop surrogacy now) ha deciso di intraprendere un viaggio dalla California a Roma dove, con alcuni colleghi attivisti, ha avviato una protesta affinché le istituzioni aprano gli occhi sul fenomeno. Infatti, nonostante i numerosi divieti imposti in tutto il mondo e che in Europa, oltre che dall’Italia, sono stati adottati dalla maggioranza dei paesi, continua a crescere il volume d’affari dell’utero in affitto.
Come rileva l’Osservatorio francese sulla procreazione assistita, nel corso del 2022 il giro d’affari attorno alle madri surrogate è stato di oltre 11 miliardi di dollari, rispetto agli appena 3,8 che si stimarono nel 2016, mentre entro il 2027 ci si aspetta che superi i 33 miliardi. Cifre decisamente elevate e che, secondo gli attivisti riuniti a Roma, dimostrano come “le leggi nazionali non bastano“. Chiunque voglia ricorrere all’utero in affitto, infatti, può facilmente rivolgersi a paesi come gli Stati Uniti, oppure l’Ucraina, che permettono questi interventi, acquistando embrioni e ovuli dalla Spagna o dalla Danimarca (dove il donatore è anonimo), per poi farli riconoscere nei propri Stati d’origine.
Gli attivisti: “L’utero in affitto non è un lavoro, ma una mortificazione per le donne”
Dietro all’utero in affitto, è sempre bene ricordarlo, si nascondono affari che valgono tra i 120 mila e i 300 mila dollari nel caso in cui ci si rivolga agli Stati Uniti, oppure attorno ai 50 mila in Ucraina, che nonostante la guerra in corso è tornata a dare i natali a circa 3 mila bambini ‘surrogati’ all’anno. Inoltre, i sostenitori della maternità surrogata talvolta dimenticano che non è una pratica medicalmente sicura al 100%, e sono molte le donne morte tentando di dare alla luce un bambino surrogato, così come si ignora che l’utero in affitto stralcia ogni diritto della madre/incubatrice, che a fronte di ripensamenti (dall’una o dall’altra parte) si trova costretta a decisioni sofferte o a lunghe cause legali.
Sul fenomeno, inoltre, secondo gli attivisti riuniti a Roma, occorre anche cambiare la narrativa popolare perché, spiega Lahl ad Avvenire, è inaccettabile che “le dive di Hollywood ci mostrano la loro felicità mentre aspettano un figlio da una surrogata” perché si tratta di “un falso: è un’altra la donna che attende un bambino, non loro. Chi partorisce” nell’ambito dell’utero in affitto, sottoline, “non ha il diritto nemmeno di vedere il proprio figlio: questa è mercificazione, una moderna poligamia. Affittare l’utero non è un lavoro, la verità è che i committenti possiedono la donna. E il prodotto è il bambino, che diventa merce di scambio. Ma le donne non sono robot“. Cosa fare dunque? “Controllare i flussi finanziari”, propone, “per far rispettare la legge”, contestando gli atti di nascita varati all’estero e. soprattutto, aprendo la strada ad una messa al bando globale dell’utero in affitto.