Hanno ragione gli esperti del Jcvi, il comitato medico-scientifico britannico indipendente che assiste il governo di Boris Johnson sulla campagna vaccinale, a non raccomandare la somministrazione dei vaccini a bambini e ragazzi sani fra i 12 e i 15 anni, esortando a maggiori cautele sul rapporto rischi/benefici, o le principali società scientifiche dei pediatri che invece raccomandano di fare il vaccino in questa fascia d’età? Al di là dei casi dei ragazzi fragili o immunodepressi che hanno bisogno di stimolare una risposta anticorpale al Covid, in Italia non si sta recependo forse in modo affrettato e imprudente – rispetto ad altri Stati come appunto Gran Bretagna, Israele, Germania o Danimarca – l’idea che vaccinare sempre, ovunque e comunque bambini e adolescenti sia buona cosa? Ci sono dati ufficiali, scientificamente validati, pubblicati su riviste scientifiche autorevoli e il più aggiornati possibile che val la pena prendere in considerazione?
Le domande sono tutt’altro che peregrine e le risposte, improntate al massimo rigore scientifico, non possono essere rubricate, sic et simpliciter, come posizioni no vax. Quanto meno impongono un supplemento di riflessione.
In Italia, com’è risaputo, l’Aifa ha autorizzato lo scorso 31 maggio, dopo il via libera dell’Ema di tre giorni prima, all’uso del vaccino Pfizer-BioNtech per immunizzare dal Covid i giovani tra i 12 e i 15 anni, innescando una virata della campagna vaccinale proprio su bambini e ragazzi. Da quel momento il mantra “vaccinare, vaccinare, vaccinare” ha un po’ abbandonato la presa sugli over 60 “sfuggiti” all’immunizzazione. Ma se questa strategia ha dimostrato, con rilevanza statistica significativa, di essere estremamente efficace, a due mesi e a sei mesi, sugli adulti nel prevenire la malattia in forma severa, la proprietà transitiva sugli adolescenti non sembra potersi applicare in maniera automatica e con gli stessi standard di sicurezza, perché i risultati a lungo termine nessuno ancora li conosce.
Occorre, poi, ricordare che i vaccini hanno finora ottenuto l’autorizzazione condizionata in Europa, non l’approvazione definitiva. Un’autorizzazione che resta condizionata al fatto che la fase 3 di studio produca i medesimi risultati di efficacia e sicurezza nel tempo fino alla data finale in cui il “disegno” del trial dice che bisogna arrivare (per Pfizer è fissata al maggio 2023). Lo studio però è stato condotto sugli over 16, ma non sugli under 16, per i quali si è fatto ricorso all’escamotage procedurale del cosiddetto immunobridging: in pratica, presumendo che la patologia sia simile a quella della popolazione adulta, si persegue anche negli adolescenti l’obiettivo primario di abbattere la severità dell’infezione.
Ma sui bambini “il decorso dell’infezione è frequentemente asintomatico” (studio pubblicato sul British Medical Journal il 20 luglio 2021) e anche i ragazzi tra i 12 e i 16 anni, quando si infettano con Sars-CoV-2, sono asintomatici o presentano sintomi lievi. La sindrome infiammatoria multi-sistemica correlata a Covid-19 ha incidenza modesta (~3 su 10.000 bambini negli Usa, dove colpisce soprattutto neri, ispanici e asiatici) e non è chiaro se i vaccini la evitino. La stessa incidenza del cosiddetto Long-Covid pare in linea con il decorso di altre malattie virali comuni. La Covid-19 non rappresenta, quindi, un pericolo per i nostri giovani che, anzi, se si ammalano, restano contagiosi per una settimana circa e sviluppano un’immunità durevole e vantaggiosa per tutti.
Lo studio di Pfizer, per esempio, su 2.260 ragazzi ha registrato solo 18 casi di Covid in 6 mesi, di cui nessuno ospedalizzato, mentre quello di Moderna, condotto sui 12-15enni, ha contato 4 casi di Covid su 3.732 ragazzi, per lo più asintomatici e in forma lieve.
Non c’è però solo questo. Dagli Stati Uniti arrivano numeri “freschi” che meritano attenzione sul fronte della farmacovigilanza. Il Cdc, importante organismo di controllo sulla sanità pubblica, ha infatti pubblicato ad agosto, nel programma V-safe, un monitoraggio sullo stato di salute di 129.059 adolescenti dai 12 ai 17 anni nei 7 giorni successivi all’inoculazione del vaccino anti-Covid di Pfizer-BioNTech. Si tratta di un sistema digitale di “sorveglianza sollecitata” attraverso il quale le famiglie dei ragazzi sono invitate a segnalare la comparsa di eventuali reazioni avverse più o meno gravi.
La tabella 3 indica le percentuali di reazioni avverse/impatti sulla salute “immediati” emersi nel periodo 14 dicembre 2020-16 luglio 2021. E cosa dicono i dati, cumulativi delle due dosi?
Il dato generale è che l’insorgere di questi eventi avversi cresce, anche parecchio, dopo la seconda dose rispetto agli effetti prodotti dalla prima. Nel cluster 12-15 anni il campione ha segnalato impatti severi sulla salute nell’11% dei casi dopo la prima dose e addirittura del 28,6% dopo la dose di richiamo, mentre tra i 16-17enni le stesse percentuali indicano rispettivamente il 10,6% dopo la prima dose e il 25,4% dopo la seconda.
Di quali sintomi avversi si parla? Nella classe 12-15enni, sempre passando dalla prima alla seconda dose, l’incapacità di svolgere le normali attività quotidiane (per esempio, qualsiasi effetto che rende incapaci di indossare una maglietta o di fare le scale di casa) ha colpito rispettivamente il 9% e il 24,7% del campione; l’incapacità di andare a lavorare o di poter frequentare la scuola, ha interessato prima il 3,7% e poi l’11,7%; la necessità di cure mediche lo 0,5% e lo 0,6%; un intervento in telemedicina lo 0,1% e successivamente lo 0,2%; una visita ambulatoriale dopo entrambe le dosi lo 0,2%; il ricorso al pronto soccorso lo 0,1% e dopo la dose di richiamo lo 0,2%; il ricovero in ospedale prima lo 0,02% e poi lo 0,03%.
Nel cluster 16-17 anni le stesse tipologie di impatti sulla salute indicano queste percentuali dopo la prima e la seconda inoculazione: l’incapacità di svolgere normali attività quotidiane passa dal 9,3% al 23,1%; l’incapacità di lavorare o di andare a scuola dal 2,4% al 6,1%, la necessità di cure mediche dallo 0,5% allo 0,8%, la telemedicina dallo 0,1% allo 0,2%; l’ambulatorio dallo 0,2% allo 0,3%; la visita in pronto soccorso dallo 0,1% allo 0,2%; l’ospedalizzazione dallo 0,02% allo 0,04%.
Piccoli numeri? Può darsi, ma se si proiettano sull’intera popolazione italiana dei 12-17enni (3.414.410 adolescenti, secondo l’Istat) e ipotizzando che tutti vengano vaccinati, ne risulterebbe questa mappa della farmacovigilanza:
• 1.935 ragazzi ricoverati in ospedale con problemi di salute seri (~1 ogni 1.800);
• 10.244 ragazzi che ricorreranno al pronto soccorso (3 ogni 1.000);
• 15.930 ragazzi che ricorreranno a una visita in ambulatorio (~4,7 ogni 1.000);
• 42.103 ragazzi che avranno bisogno di cure mediche (~12 ogni 1.000), più altri 10.244 che dovranno fare ricorso a interventi di telemedicina;
• 367.871 ragazzi che non saranno in grado di andare a scuola o al lavoro (~11 su 100);
• 1.121.112 ragazzi che saranno incapaci di svolgere le normali attività quotidiane per uno o più giorni (~33 su 100).
In totale, facendo un semplice calcolo aritmetico, avremmo circa 80mila ragazzi che avrebbero bisogno del Servizio sanitario nazionale, dalla necessità di cure mediche fino all’ospedalizzazione. Per inciso: secondo l’VIII Rapporto Aifa sulla sicurezza vaccini Covid, da dicembre 2020 ad agosto 2021 in Italia sono state raccolte 91mila segnalazioni di eventi avversi, pari a 110 su 100mila vaccini, cioè centinaia di volte meno rispetto ai dati della sorveglianza V-safe del Cdc.
Alla luce di queste proiezioni (e considerando che i casi di effetti aversi indotti dal vaccino Moderna negli adolescenti sono anche peggiori di quelli del vaccino Pfizer), la scienza e la politica non possono eludere alcune domande: il nostro governo è al corrente di questi numeri? E i nostri medici di famiglia? Questi numeri sono ritenuti accettabili dalle autorità? Come si può sostenere che in età pediatrica, il rapporto benefici/danni sia favorevole alla vaccinazione? Il “sacrificio” dei nostri figli tutelerebbe davvero la salute dell’intera collettività? Come può la vaccinazione dei ragazzi essere migliore dell’immunizzazione da infezione naturale, soprattutto quando si è dimostrato che quest’ultima offre protezione di oltre 10-20 volte più robusta e duratura per la variante Delta?
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