Il dibattito in materia di obbligo vaccinale è sempre continuato in sottofondo anche dopo le tre sentenze della Corte Costituzionale del 9 febbraio scorso, che potrebbero essere non del tutto tombali. Da un lato, infatti, l’indagine della magistratura di Bergamo ha portato alla luce molti aspetti sconcertanti e un’altra verità rispetto alla narrativa ufficiale (pur nel pervicace silenzio dei media mainstream). Dall’altro la mole dei ricorsi pendenti è ancora cospicua, in una situazione in continuo divenire.



Ma prima della pronuncia della Consulta come ha operato la giustizia ordinaria e amministrativa? I lavoratori sospesi, in quanto non vaccinati, si sono visti per lo più respingere ogni obiezione sulla base di questa tesi: “Se vuoi lavorare ti vaccini, in nome del superiore interesse pubblico. Diversamente sei libero di non vaccinarti, e conseguentemente di non lavorare”. Qualche ricorrente è stato pure costretto a pagare per intero le spese processuali o invitato a trovarsi un lavoro diverso.



Si osserva comunque una certa discontinuità tra il 2021, anno in cui sono entrati in vigore i primi obblighi, e il 2022, anno in cui sono diventati sempre più evidenti i dubbi sulla effettiva efficacia dei vaccini e anche sulla loro sicurezza.

Prima fase: il Consiglio di Stato

Nel primo periodo, fondamentale è stata la sentenza n. 7045/2021 del Consiglio di Stato, presidente Franco Frattini, nominato da Draghi in aprile, lo stesso mese in cui è entrato in vigore il contestatissimo decreto legge n. 44, che imponeva l’obbligo vaccinale a tutto il personale sanitario, con sospensione dal lavoro per gli inadempienti.



La dettagliatissima sentenza esamina, confuta e respinge integralmente ogni obiezione e fissa dei principi che dovrebbero essere cardinali per i procedimenti analoghi. Viene asserito che la procedura di autorizzazione dei vaccini, benché inizialmente “condizionata”, è assolutamente rigorosa, scientifica, solida, tale da garantire un ottimo rapporto rischio/beneficio nell’evitare non solo la malattia, ma anche il contagio. In una situazione pandemica drammatica, il legislatore ha il dovere di imporre la somministrazione della terapia profilattica per tutelare tutti e ciascuno, soprattutto i più vulnerabili. La nostra Costituzione riconosce la libertà dell’individuo, ma chiede anche responsabilità solidaristica. Anche sotto i profili della ragionevolezza, della proporzionalità, del bilanciamento fra i diritti, è stato perseguito, in quel momento, l’obiettivo primario di proteggere la salute, limitando la propagazione dell’epidemia.

Mentre gli eventi avversi, dati Aifa alla mano, sono considerati di “estrema rarità” (e a quelli mortali neppure si accenna), si insiste molto a stigmatizzare la cosiddetta “esitazione vaccinale” frutto di una “irrazionale sfiducia nei confronti della scienza”, presente nelle contemporanee societés de la défiance, che tendono all’autodeterminazione assoluta e solipsistica, secondo una visione opposta alla “fondamentale e doverosa declinazione solidaristica”.

Sicilia, il Consiglio di giustizia amministrativa

A mettere in discussione questa impostazione ci ha pensato il Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia (Cga) che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale nella lunga e articolata ordinanza del 22/3/2022, n. 351.

L’analisi parte proprio dalla sentenza n. 7045 del Consiglio di Stato, di cui si condivide in parte l’impostazione, evidenziando tuttavia una situazione cambiata e l’emergere di varie criticità. La problematica più seria riguarda gli eventi avversi, anche gravi e mortali, in percentuale ben superiore alla media degli altri vaccini, obbligatori e non, come registrato sia da Aifa che da EudraVigilance (database di Ema).

La consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale ha precisato che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 della Costituzione, se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze “che appaiano normali e, pertanto, tollerabili”. Può ancora dirsi soddisfatta questa condizione?

È la domanda cruciale posta dal Cga della Sicilia, che solleva anche altri quesiti sull’inadeguatezza del sistema di farmacovigilanza e del triage pre-vaccinale, la reiterazione delle somministrazioni, in tempi ravvicinati e soprattutto nei guariti, e la sottoscrizione di un consenso informato che appare irrazionale per un trattamento obbligatorio. Si osserva infine che il complesso normativo messo in atto in quel periodo “si pone in tensione” con numerosi articoli della Costituzione. In particolare, appare carente un adeguato bilanciamento tra valori tutti di rilievo costituzionale, quali la tutela della salute, dello studio e del lavoro, che soddisfano parimenti bisogni primari del cittadino.

Si moltiplicano i ricorsi

Tra la fine del 2021 e i primi mesi del 2022 i ricorsi si moltiplicano, dopo l’entrata in vigore di provvedimenti via via più drastici voluti dal governo Draghi, dalla “spinta gentile” del green pass agli obblighi vaccinali imposti per categorie estese di popolazione.

Tuttavia, nonostante la massiccia vaccinazione universale, ognuno ha cominciato a constatare che il virus continuava a circolare, contagiando facilmente anche i tridosati. Qualche giudice ne ha preso atto. Nel giro di pochi mesi si susseguono tre sentenze (Pistoia del 4/3/22, Padova del 28/4/22 e Firenze del 6/7/2022), che in sostanza ribadiscono la stessa tesi perfino con le stesse parole: è “notorio” che la persona che si è sottoposta al ciclo vaccinale, può comunque contrarre il virus e contagiare gli altri. Ne consegue logicamente che l’imposizione dell’obbligo, con la conseguente sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, non è una misura idonea a tutelare la salute pubblica, e quindi è irragionevole e sproporzionata rispetto allo scopo che si prefigge. Si evidenzia anche l’incompatibilità con la Carta di Nizza e altre fonti del diritto dell’Unione, oltre che con la Carta costituzionale italiana.

La sentenza di Pistoia risolve una controversia fra coniugi sulla vaccinazione anti-Covid dei figli minori. Il giudice osserva che, sotto i 12 anni, il vaccino non è raccomandato dalle stesse aziende che lo producono, come indicato nel foglio illustrativo, consultabile sul sito dell’Aifa. Inoltre i dati forniti da Iss e Istat evidenziano che, nella fascia di età 0-18 anni, in rapporto al numero dei contagiati, la percentuale di letalità e di ricoverati in terapia intensiva è minima. D’altra parte, le stesse case farmaceutiche scrivono che il vaccino disponibile non copre dal contagio, che per i minorenni è non nota la frequenza degli eventi avversi più gravi, pur essendo specificato un aumento del rischio di miocardite e pericardite. Pertanto “le scelte in ambito medico giuridico devono essere presiedute dal principio di precauzione” nell’ottica del migliore interesse del minore.

Quanto all’ordinanza del giudice Susanna Zanda di Firenze, è finita nel mirino del ministro Speranza che ha parlato di “una sentenza di cui sinceramente dobbiamo vergognarci”, “irricevibile e priva di ogni evidenza scientifica”.

In appello, quasi sempre le decisioni favorevoli ai ricorrenti si sono ribaltate con la strenua riproposizione della tesi secondo la quale, nel quadro eccezionale pandemico, la misura dell’obbligo vaccinale è del tutto proporzionata e il rapporto rischio/beneficio positivo.

Corte Costituzionale: tre sentenze

Le tre sentenze della Corte Costituzionale, pubblicate il 9 febbraio scorso, arrivano a salvare “definitivamente” l’impianto normativo messo in atto dal governo Draghi. “Ce lo impone la ragion di stato” è la logica sottesa, viste le migliaia di ricorsi pendenti e il rischio di uno tsunami di richieste risarcitorie.

Sulla base dei dati scientifici forniti dalle fonti istituzionali preposte alla salute (Iss, Aifa, ministero), la Corte ha scelto la strada del bilanciamento fra il diritto dell’individuo all’autodeterminazione e l’interesse della collettività a favore di quest’ultimo, in nome del dovere di solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione. Tesi tanto cara anche al presidente Mattarella, più volte espressa.

Tuttavia questa pronuncia ha comportato una sterzata rispetto all’orientamento pregresso i cui effetti non cesseranno di far discutere. In particolare la sentenza 14/2023 è andata ben oltre la lettura prudente della giurisprudenza anteriore, che considerava legittimo l’obbligo vaccinale, purché eventuali conseguenze negative fossero temporanee, di scarsa entità e tollerabili. Oggi invece si ammette apertamente che “il rischio remoto di eventi avversi anche gravi non possa, in quanto tale, reputarsi non tollerabile, costituendo piuttosto titolo per l’indennizzo”.

Il Rapporto Aifa di luglio 2022, pur con tutti i limiti della farmacovigilanza passiva e dell’algoritmo che esclude dal calcolo i decessi avvenuti dopo 14 giorni dalla vaccinazione, indica un tasso di 18 eventi “gravi” ogni 100.000 dosi somministrate e 29 morti correlate al vaccino. Che gli effetti avversi potessero essere anche gravi e mortali lo si sapeva dall’inizio. La Corte invece non cita neppure questo rapporto e tace sugli effetti letali, chiamandoli gravi.

È venuto così ad affermarsi un nuovo sconcertante paradigma, per cui poche vite umane sono “sacrificabili” se la comunità ne ha un beneficio nei grandi numeri. Il discorso è molto pericoloso perché va a toccare il diritto primario alla vita di ciascuno. Può darsi però che questa volta la questione non sia definitivamente chiusa.

(1 – continua)

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