È scientificamente assodato che l’efficacia protettiva dei vaccini ha durata limitata e che, dopo un certo tempo dalla seconda vaccinazione, bisogna fare una dose di rinforzo (in inglese: booster).

Nella seconda metà del 2021, molti articoli scientifici, basandosi su dati rilevati presso centinaia di milioni di persone vaccinate e altrettante non vaccinate, ha dimostrato ciò che molti sin dall’inizio avevano sospettato, e cioè che:



1) la vaccinazione costituisce per le persone inoculate un vantaggio considerevole sulla non-vaccinazione, vuoi per quanto riguarda il minor rischio di contagio, vuoi per le possibili conseguenze dello stesso, e sia a ridosso della vaccinazione, quando la protezione è molto elevata, sia alcuni mesi dopo la vaccinazione, quando la protezione si riduce rispetto al punto di partenza, ma rimane comunque importante;



2) il calo di efficacia dei vaccini nel tempo varia secondo una combinazione di cause che dipende dal vaccino assunto, dalle caratteristiche del vaccinato e dalla variante di coronavirus con cui la persona è entrata in contatto.

L’Istituto superiore di sanità (Iss, Report n. 4 del 30/9/2021) ha studiato milioni di vaccinati in Italia, ma non ha evidenziato alcuna relazione tra l’efficacia e la durata della vaccinazione. Poi, come direbbe l’astrologo, le stelle si sono allineate con i pianeti e sono stati resi noti i risultati di molti studi scientifici. Nel seguito, ricostruiamo ciò che gruppi di ricercatori di varie parti del mondo hanno trovato sulla persistenza protettiva dei vaccini e cerchiamo di capire che cosa conviene fare per uscire dalla pandemia.



I quesiti cui intendiamo rispondere nella nostra ricostruzione sono sostanzialmente due:

– Dopo quanti mesi la perdita di efficacia è critica, vale a dire, può rendere vulnerabile oltremisura anche un vaccinato?

– Per quali vaccini e per quali categorie di persone la perdita di efficacia raggiunge prima un livello critico? Di conseguenza, come devono districarsi i cittadini più attenti tra le indicazioni dei mass media e degli organi sanitari?

Per collocare i nostri ragionamenti, è necessario fare un passo indietro. Nel 2021 sono arrivati i vaccini e gli italiani, con poche eccezioni sulle quali torneremo, si sono subito denudati il braccio per le iniezioni. Nel mondo c’è stata quasi una gara a chi arrivava per primo al 70% di prime dosi, un traguardo ritenuto allora sufficiente per la cosiddetta immunità di gregge. Abbiamo capito in corsa che quell’immunità era solo un’illazione degli epidemiologi e che potevamo cavarcela solo se tutti si vaccinavano.

Abbiamo altresì capito che, qualora fossimo riusciti a chiudere la porta al virus, vaccinando tutti i vaccinabili, il virus sarebbe comunque rientrato dalla finestra sotto falso nome e/o tramite i non-vaccinabili. È, infatti, dilagata nel mondo la variante Delta, molto più infettiva delle precedenti, oggi si parla dell’invasività della Omicron, domani chissà.

Di questi tempi, stiamo contando decine di migliaia di infetti e oltre cento morti al giorno. La maggior parte dei contagiati non è vaccinata, ma, seppure in minor numero, sono contagiati anche i vaccinati. È chiaro che la colpa principale della fiammata infettiva ricade sui non vaccinati, ma è altrettanto chiaro che qualcosa non funziona, o, meglio, funziona diversamente dalle attese rispetto ai vaccini.

Ci sono, infatti, alcune persone sulle quali il vaccino non agisce come dovrebbe e altre, la maggior parte, sulle quali il vaccino perde efficacia con il passare del tempo.

Gli studi sui quali basiamo le nostre considerazioni sono stati diffusi tra settembre e dicembre del 2021. Si tratta di studi retrospettivi su milioni di vaccinati confrontati con altrettanti non-vaccinati di vari Paesi: Regno Unito (Bernal et al., 2021, NEJM), Israele (Dagan et al., 2021, NEJM; Gazit et al., 2021, BMJ; Goldberg et al., 2021, NEJM; Israel et al., 2021, BMJ), Stati Uniti (Tartof et al., 2021, Lancet; Rosenberg et al., 2021, NEJM), Qatar (Chemaitelly et al., 2021, BMJ), Scozia e Brasile (Katikireddi et al., 2021, Lancet). Tutti questi studi mostrano stime simili sulla durata dell’efficacia della vaccinazione. I numeri fondamentali sono i seguenti.

1) Il tetto dell’efficacia della vaccinazione si registra un paio di settimane dopo la seconda dose. Questa elevatissima protezione dura circa due mesi, poi inizia un declino che dal terzo al quarto mese è di circa il 20% e tra il quinto e il sesto mese è di un altro 12-20%. Fa eccezione il Brasile, Paese in cui la vaccinazione è partita tardi e l’efficacia, a tutte le date, è inferiore di circa il 20% rispetto a quella degli altri Paesi menzionati. Non ci sono dati certi dopo il sesto mese, così si possono fare solo congetture: alcuni sospettano che dopo il sesto mese continui il calo, altri ipotizzano che, dopo un certo tempo, ma non si sa quale, la curva si appiattisca su un plateau.

2) L’efficacia dei vaccini è diversa secondo che riguardi l’esposizione al rischio d’infezione o le conseguenze dell’infezione sul vaccinato. I vaccini mostrano di essere molto più protettivi contro il rischio di ospedalizzazione o morte rispetto al rischio di contagio. Ciò significa che le cellule difensive (dette B e T) create dal vaccino sono in grado di intercettare e distruggere quelle infettive penetrate nel corpo, o, per lo meno, sono in grado di ridurne la massa e, conseguentemente, la gravità del potenziale impatto sul contagiato.

3) La Delta, la variante più perniciosa tra quelle studiate (Gupta e Topol, 2021, Science; Bernal et al., 2021, NEJM), abbassa tutte le percentuali di efficacia, sia quella a ridosso della seconda dose (riduce l’efficacia dal 94 all’88% per i vaccini Pfizer e Moderna e dal 75 al 67% per AstraZeneca), sia quella a distanza di sei mesi dalla seconda dose (scende dal 70 al 53% per Pfizer/Moderna e dal 47 al 44% per AstraZeneca). Il vaccino Janssen, pur essendo il meno studiato, è, in ogni confronto, il meno efficace tra i vaccini citati contro ogni variante.

4) L’efficacia cala alle età più elevate, riducendosi, in modo particolare, in funzione del numero e della gravità delle malattie croniche. L’efficacia è molto ridotta nei malati di cancro, nei trapiantati e in altre persone con il sistema immunitario compromesso. Questo già si sapeva. Forse non si sapeva che l’efficacia aumenta con il numero e l’importanza degli effetti collaterali (febbre, dolori muscolari, malesseri) registrati in conseguenza della vaccinazione. I ricercatori (Naaber et al., 2021, Lancet) ipotizzano che gli effetti collaterali rappresentino sintomi dell’avvenuta risposta immunitaria di breve periodo al vaccino; quindi, quanto più evidente è questa reazione, tanto più è probabile che la vaccinazione abbia prodotto cellule immunizzanti.

Si sa, inoltre, che anche il contagio genera anticorpi e che l’immunizzazione è, in genere, forte e duratura anche rispetto alla Delta (Gazit et al., 2021, BMJ). Sfortunatamente, al fine di produrre dati standard, le ricerche dianzi citate hanno ignorato la capacità protettiva generata, diciamo naturalmente, dal contagio. Si sa che sono in cantiere studi scientifici sulla durata dell’efficacia immunitaria naturale, eventualmente rinforzata dai vaccini (che qualcuno chiama “ibrida”, altri “super-immunità”: Goldberg et al., 2021, BMJ). Perciò, presto capiremo molto di più su come rapportarci con il virus.

Per far capire i tipi di protezioni date dal vaccino, la Bbc (Gallagher, 14 novembre 2021) ha fatto ricorso alla parabola del castello, che noi adattiamo al nostro discorso. Gli anticorpi creati dal vaccino sono, per il nostro corpo, come gli arcieri sugli spalti di un castello medievale che, con le loro frecce, cercano di respingere gli assalitori. Le cellule di difesa (B e T) create dal vaccino sono, invece, i guerrieri scelti e meglio armati che entrano in azione (dentro il castello) contro gli assalitori che sono riusciti a superare le mura; queste seconde linee possono neutralizzare del tutto o in parte gli invasori. Si individua così una linea di difesa esterna, quella degli arcieri, da una interna, le cellule B e T.

La variante Delta, nella parabola, è come una nuova arma d’assedio, una catapulta, che può causare varchi nelle mura del castello e abbattere più facilmente la linea di difesa esterna, ma che può anche provocare danni, seppure minori, tra le seconde linee, quelle interne al castello.

A questo punto ci chiediamo che cosa sia possibile fare per surrogare la perdita di efficacia dei vaccini, stante che il virus continua ad assediarci e che alcune varianti sono non solo più aggressive di quella del laboratorio di Wuhan, ma hanno infettività e impatto sull’uomo che mutano di giorno in giorno. La risposta dei ricercatori clinici è unanime: conviene rinforzare le difese immunitarie con un’altra dose, ripristinando così la condizione di massima protezione che il vaccino aveva dato con la seconda dose.

Tuttavia le cose non sono così immediate, perché l’assunzione immediata di una terza dose è condizionata da varie remore politiche e pratiche.

Le remore politiche sono duplici. Alcuni responsabili della politica sanitaria temono che, se si dice che il vaccino perde di efficacia, si crei panico nella popolazione perché si instilla il dubbio sull’utilità tout-court del vaccino. Addirittura, dicono costoro, potrebbero ridare fiato alle contestazioni dei no-vax.

Altri, attenti ai rapporti internazionali, ritengono che, in questo momento storico, sia più conveniente per tutti se grandi lotti di vaccini sono donati ai paesi che non possono permettersi di acquistarli, soprattutto se si tratta di paesi nei quali l’infezione infiamma e che, con nuove varianti, potrebbero trasferire il loro incendio nei paesi economicamente più progrediti. Insomma, le obiezioni politico-sociali non sono affatto banali.

Le remore di tipo pratico sono altrettanto diversificate. Anzitutto, il vaccino costa. Anche se ai cittadini non si fa pagare, costa allo Stato e ai cittadini il costo è addebitato con le tasse.

Poi non si sa con certezza che cosa accada dopo il sesto mese dalla vaccinazione completa. Molti sposano l’ipotesi che il declino dell’efficacia sia netto dopo il terzo mese e che si possa verificare ciò che aveva pronosticato già all’inizio del 2021 l’équipe australiana di Miles Davenport, ossia che circa ogni 108 giorni si ha una riduzione a metà della capacità protettiva del vaccino. A quei tempi non si conoscevano i vaccini se non per sentito dire. È probabile che i giorni per il dimezzamento dell’efficacia siano, più o meno, il doppio di quelli ipotizzati da Davenport e compagni, ma, se la tendenza è quella, una terza dose, e poi una quarta, e così via, saranno prima o poi necessarie.

Se, invece, al sesto mese siamo prossimi al plateau, ossia al valore sotto il quale la forza degli anticorpi creati dal vaccino si stabilizza, le cose possono essere diversificate al massimo. La terza dose si potrebbe ritardare per i più giovani, per coloro che non hanno malattie croniche, per coloro a cui l’inoculazione del vaccino ha dato effetti collaterali e, in genere, per chi è notoriamente già forte di suo.

Tra l’altro, non è detto che una terza dose rinforzi allo stesso modo sia le difese contro il contagio, sia quelle generate dal sistema immunitario per circoscrivere gli effetti dell’eventuale contagio. Se queste seconde difese sono già solide, ci sono buone ragioni per allungare l’intervallo tra i richiami. In modo particolare, l’intervallo tra richiami può essere allungato per coloro che sono già entrati in contatto con il virus.

A questo proposito, non riusciamo a comprendere perché le autorità sanitarie italiane facciano orecchio da mercante ai numerosi suggerimenti di svolgere indagini sierologiche, a carattere ufficiale, su campioni mirati della popolazione, al fine di misurare la capacità immunitaria delle persone a varie scadenze dopo la vaccinazione. Chissà perché prevale l’interesse a non-sapere.

Le indagini sierologiche dovrebbero essere opportunamente diversificate per caratteristiche delle persone, per tipo di vaccino somministrato (o non somministrato) e per tipo di contatti avuti con il virus, al fine di comprendere l’entità e la variabilità dei rischi rispetto al virus e dare indicazioni consapevoli sulle diverse esigenze dei singoli.

Avviandoci alla conclusione, se ci poniamo l’obiettivo di minimizzare la circolazione del virus, si possono individuare due priorità perseguibili nella politica sanitaria interna, al fine di evitare che l’indubbio beneficio che si otterrà vaccinando con una terza dose sia presto messo a repentaglio da una massiva diffusione dell’infezione a causa delle falle che sono già oggi evidenti nel sistema di protezione contro il virus.

Una campagna vaccinale dei bambini, anche se è molto delicata, è, senza dubbio, la più tranquillizzante sul piano interno. In Italia, i minori sono il 10% della popolazione, ossia oltre 6 milioni. Costituiscono, loro malgrado, milioni di possibili veicoli di contagio. Non è un caso che la fiammata infettiva in corso sia iniziata quando sono state riaperte le scuole e che il numero di bambini contagiati sia superiore ai numeri di ogni fiammata precedente.

Inoltre, le frequenti interruzioni della didattica stanno avendo un impatto negativo sia sull’apprendimento, sia sull’organizzazione delle famiglie e, indirettamente, sul lavoro e sul morale degli adulti. Sarebbe, infine, un dramma culturale e sociale se si dovesse ricorrere ad un altro anno di didattica a distanza, magari a singhiozzo.

Sempre sul piano interno, ci sembra, invece, che sia una fatica con scarsi risultati il tentativo di convincere quei pochi che non si sono vaccinati e che sono, consapevolmente, il più pericoloso tra i veicoli di contagio evitabili. Siccome queste persone stanno danneggiando la società, questa ha il diritto/dovere di usare la massima intransigenza nell’obbligarle a non nuocere.

Non possiamo condizionarci la vita per un terzo anno di fila: meglio una serie di tagli drastici che prolungare la sofferenza psicologica di una situazione percepita senza fine. Si rischia di soffocare le energie latenti per la ricostruzione del mondo appena fuori dal tunnel.

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