La prima settimana del Governo Draghi si è chiusa all’insegna di un discorso sul metodo, serio e importante perché in politica il metodo è più che mai essenziale e perché sono emerse già alcune importanti novità nei contenuti. Adesso è il momento del discorso sul merito, probabilmente fin dal Consiglio dei ministri di domani, anche se formalmente ha un ordine del giorno di routine. Le questioni più immediate sono due: 1) chi gestirà la campagna dei vaccini che, ha annunciato il presidente del Consiglio, dovrà cambiare marcia, più veloce, più estesa, capillare, impiegando tutto quel che è possibile, dall’esercito alle farmacie; 2) come trasformare i sussidi in sviluppo, il debito in investimenti. Draghi ha detto chiaramente basta alle imprese zombie, i sostegni per l’emergenza dovranno essere calibrati già in funzione della riconversione produttiva, un’operazione complessa, potenzialmente conflittuale, e non si è capito se c’è davvero consenso tra le forze politiche che sostengono l’esecutivo. Ma cominciamo dai vaccini.



È già chiaro che il piano per la ripresa farà capo al ministero dell’Economia; nessuna task force, niente cabine, il regista sarà il ministro Daniele Franco, il quale dovrà rispondere al capo del Governo e al Parlamento di un piano che sarà ampiamente rivisto. Dunque, una scelta non tecnocratica, ma politica, del resto la grande torta sarà divisa secondo le linee e le priorità che rappresentano i pilastri di questa grande coalizione il cui compito è portare il Paese fuori dalla doppia crisi, sanitaria ed economica; insomma, sono scelte fino in fondo politiche. La stessa chiarezza non c’è per il piano vaccini. Siccome andrà anch’esso riscritto, chi dovrà farlo? Il ministro dell’Economia o il commissario Arcuri che ha mostrato tutti i suoi limiti (per usare un eufemismo) e comunque scade tra un mese? 



Draghi ha detto che la sanità andrà riformata puntando sul territorio, ciò investe anche le competenze dei ministri Vittorio Colao e Roberto Cingolani responsabili della transizione digitale e di quella ecologica. E le regioni? Un tale cambiamento di priorità strategiche deve coinvolgerle visto che la sanità viene gestita da loro. A chi faranno capo tutti questi personaggi in cerca d’autore?

La seconda cartina di tornasole si è già presentata venerdì nella romana via Veneto che ormai da tempo non è il palcoscenico della dolce vita, ma del malessere sociale rappresentato dalle vertenze industriali irrisolte, i cosiddetti tavoli di crisi. Nella foresteria della Confindustria si è svolto un incontro informale tra i segretari di Cgil, Cisl, Uil e Carlo Bonomi, presidente dell’associazione degli industriali. Tema: il blocco dei licenziamenti. I sindacati vogliono un rinvio, gli imprenditori no, ma in realtà si discute di mettere in campo un meccanismo flessibile che consenta di tutelare i settori più colpiti aprendo il rubinetto per quelli che tirano oggi ancor più di prima. Il problema è a quali condizioni, quale sarà il dot ut des. 



Intanto nella stessa via Veneto, al ministero dello Sviluppo economico, il ministro Giancarlo Giorgetti si occupava dell’Ilva più che mai a rischio dopo gli interventi della magistratura che hanno imposto di chiudere l’altoforno 2. Giorgetti ha ribadito che l’acciaieria è strategica e Invitalia deve andare avanti nell’acquisizione della maggioranza della società finora controllata da ArcelorMittal, però la sorte del polo siderurgico tarantino è di nuovo a rischio. Una bella grana per il nuovo Governo, la prima prova del nove per capire se davvero siamo di fronte a una vera svolta. Perché non possiamo far finta che contro l’Ilva sono in campo non solo i magistrati, ma i grillini e le autorità politiche locali, a cominciare da Michele Emiliano, presidente della regione Puglia.

Altrettanto urgente è affrontare il collasso del turismo. Anche in questo campo non si può pensare di prolungare sine die ristori e sussidi. Lo ha riconosciuto il neo ministro Massimo Garavaglia che invita a mettere in campo proposte per rendere il settore più competitivo. Negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso quote di mercato rispetto alla Francia, alla Spagna, alla stessa Turchia. Dunque qui meno che altrove l’idea di ricominciare come prima è non solo infondata, ma pericolosa. 

Nel suo intervento alla Corte dei Conti Draghi ha detto che la sostenibilità del debito pubblico non dipende solo dai tassi di interesse, ma dalla crescita. È un’illusione, dunque, pensare che ci si possa indebitare senza limiti perché il denaro oggi non costa nulla. Ed è un errore imperdonabile se non si mette al primo posto l’accelerazione della crescita. Le ultime previsioni dell’Unione europea vedono l’Italia in allarmante sofferenza. Se, infatti, in media i Paesi dell’Eurolandia avranno un rilancio forse più consistente del previsto già nella seconda metà dell’anno, per l’Italia la ripresa si sposta al 2022, mentre solo nel 2023 il prodotto lordo riuscirà a recuperare il livello non entusiasmante del 2019. Il compito del Governo, dunque, fa davvero tremare i polsi. E aggiunge peso al richiamo insistente di Draghi all’unità, al consenso, a “stringersi a coorte”. 

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