Sarà vera crisi? Vien la tentazione di rispondere “ai posteri l’ardua sentenza”. Non sappiamo se martedì il Bis-Conte avrà i voti per continuare grazie ai responsabili o costruttori che dir si voglia. Intanto ieri l’Udc si è tirata indietro, mentre il Pd che avrebbe voluto e potuto approfittare dell’attacco di Matteo Renzi per riequilibrare il suo peso nel Governo, adesso si dice “preoccupato di una crisi al buio”. Dunque, è possibile che il presidente del Consiglio debba salire al Quirinale per conferire con il presidente della Repubblica, il cui ruolo a questo punto diventa centrale. 



Non sappiamo nemmeno se, in caso di dimissioni, Sergio Mattarella darebbe un terzo incarico a scatola chiusa anziché chiamare i partiti, anche quelli dell’opposizione, per capire chi può essere disponibile a un governo di scopo che duri di qui fino alle elezioni e abbia due specifici quanto grandi obiettivi: combattere la pandemia attuando un serio programma di vaccinazioni e gestire la prima fase del Recovery plan. Intanto, ha già lanciato un messaggio preciso: una maggioranza raccogliticcia non basta, serve un Parlamento che sia in grado di deliberare e un Governo che sappia decidere e realizzare con un consenso il più ampio e solido possibile. Insomma, oggi come oggi non possiamo dire se siamo nel pieno di una crisi di quelle vere, tuttavia i presupposti ci sono tutti. 



Giuseppe Conte ha commesso un errore di fondo: non ha capito che toccava a lui cambiare passo già a settembre con l’avvicinarsi della seconda ondata e con la necessità di preparare il piano per la ripresa. Il discorso di Mario Draghi al Meeting di Rimini era l’occasione migliore per chiamare l’ex Presidente della Bce e chiedergli come fare debito buono e non cattivo. Su questa base avrebbe dovuto rivolgersi alla sua maggioranza e poi chiedere all’opposizione uno sforzo di responsabilità nazionale.

Perché Conte non l’abbia fatto è da lasciare davvero ai posteri: sarà vanità, debolezza politica, mancanza di visione, cattivi consiglieri, rissosità nella sua maggioranza; chissà. Va detto che nemmeno Nicola Zingaretti, un politico più navigato, ha avuto lo scatto che molti all’interno del suo partito gli chiedevano (e ancora gli chiedono, nonostante sia probabilmente troppo tardi). Da quel primo errore sono derivati tutti gli altri, il più scivoloso dei quali è senza dubbio la querelle sulla delega per i servizi segreti. Una patata ancor più bollente dopo il cambio alla Casa Bianca e la svolta determinata dalla netta (e inattesa in queste proporzioni) vittoria dei Democratici, i quali con la maggioranza in Senato hanno ormai il controllo dell’intero Congresso.



Matteo Renzi, con astuzia tattica, ha colto al volo l’occasione sollevando questioni di metodo e di merito ben fondate, molte delle quali condivise dalla maggior parte del Pd, anche se il suo Segretario non ha avuto la preveggenza di metterle con energia e determinazione sul tavolo del negoziato. Ciò vale per i servizi di sicurezza così come per il finanziamento della ripresa. A questo punto c’è un’altra domanda alla quale non sappiamo rispondere: Renzi ha un piano B, o meglio ha cominciato la sua battaglia sapendo quando e dove portarla a compimento? Difficile a questo punto tirare a indovinare. Certo è che un eventuale Conte-Ter non può nascere per puro istinto di conservazione, ma deve dare il segno di una vera ripartenza.

Cominciamo dalla campagna di vaccinazione. È chiaro che va coordinata a livello centrale, ma non avrà successo se non sarà gestita nei territori in modo coerente ed efficiente. Ciò richiede uno sforzo organizzativo che ancora non si vede, ma soprattutto un grande lavoro di convincimento, anzi la ricerca di un vero e leale consenso. Proprio quello che oggi non esiste sotto l’arcobaleno dei colori.

Il piano per la ripresa è ampio, dettagliato, ma anche confuso. Si stenta a individuare un progetto coerente al di là di alcuni slogan scontati e di messaggi che rendono omaggio alle priorità europee cominciando dalla green economy. Non hanno torto le associazioni professionali e imprenditoriali a lamentare una mancanza di coerenza. A questo punto occorre spiegare il senso e le priorità strategiche, in modo esteso e capillare, usando i mass media, ma anche gli incontri, i confronti, i tavoli professionali, insomma costruire le condizioni affinché il piano non fallisca. E queste condizioni non sono solo tecnico-burocratiche (l’incapacità di spendere mostrata le risorse ordinarie messe a disposizione dall’Ue), ma politiche, cioè dipendenti dall’attiva partecipazione di tutti i soggetti interessati, le imprese, le amministrazioni, i cittadini.

La gestione del piano, dunque, è essenziale. La Commissione europea indica alcune linee guida precise: la natura istituzionale deve essere chiara ed esplicita così come il ruolo di parlamenti ed enti locali, la consultazione sistematica delle parti sociali, le capacità amministrative adeguate e, dulcis in fundo, un’autorità che abbia la responsabilità per l’attuazione, specificando anche precisi sistemi di selezione dei progetti in base ai loro requisiti. Un decalogo che vuol dare trasparenza all’intero processo. Circolano diverse proposte: Giorgio La Malfa e Romano Prodi vorrebbero un’autorità distinta dal Governo, l’Assonime un ministro senza portafoglio con capacità amministrativa ed esperienza istituzionale. In ogni caso “non può essere né il portavoce del Premier né una troika di ministri”, ha scritto Stefano Micossi sul Sole 24 Ore, a gestire 223,9 miliardi di euro dei quali 144 miliardi in nuovi progetti. 

Crisi al buio? Forse il buio comincia molto prima e si spera che non vada ben oltre la crisi.