Diceva Hannah Arendt: “Il rimedio all’imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e mantenere le promesse”. Notevole, no? Che poi è un’edizione rinnovata e adattata del brocardo romano Pacta Sunt Servanda, i patti vanno rispettati. I patti, in una società sana oltre che giuridicamente avanzata, vanno sempre rispettati. Si tratta di un principio semplice e potente allo stesso tempo. Universalmente comprensibile come dovrebbero essere tutte le prescrizioni. E, potremmo dire, di una forza naturale.



Ma nei momenti d’incertezza, di confusione, di scarsa visibilità sul futuro, non basta rispettare i patti – e sarebbe già moltissimo -: occorre avere la capacità di mantenere le promesse fatte e di farne di nuove che possano stabilizzare anche il minimo rapporto. In un’epoca caratterizzata dalla fuga dalle responsabilità, nella quale s’insegue il minimo appiglio per rimangiarsi la parola data, dove qualsiasi contratto assume la forma di una vaga dichiarazione d’intenti, il richiamo all’onore appare davvero rivoluzionario.



Il relativismo – che pure ha i suoi meriti – ha vinto su tutto. Io m’impegno a fare o dare una cosa, ma al minimo impedimento mi tiro indietro. Se le condizioni di contorno cambiano e non mi sono più favorevoli, allora che vada tutto all’aria. Il che vuol dire che vince l’attitudine a mantenere la parola data fino a quando se ne ha convenienza. Quando questa cade, cade anche la disposizione ad adempiere. Ma questo è esattamente quello che uccide la coesione, la fiducia e in ultima istanza la società.

A meno che la condizione che annulla l’intesa non sia puntualmente prevista in premessa, e non si tratti di una vera (vera) causa di forza maggiore, i patti si stringono proprio per ridurre l’area dell’incertezza e poter contare su una certa stabilità nel rapporto. Che tipo di accordo sarebbe quello che consente di adempiere o meno la prestazione a seconda della convenienza a farlo? Sai, è vero che mi ero impegnato a fare questo, ma adesso non ne ho più vantaggio e quindi tutto quello che abbiamo detto non ha più valore.



Ripugnante, eh? Eppure l’esperienza insegna che questo atteggiamento sta diventando (se non è già diventato) la normalità. La parola ha perso di significato e si parla tanto per non dire niente. Tutto è interpretabile con libertà, non c’è niente di sicuro a cui appigliarsi. Non meraviglia che ogni pensiero, ogni azione, abbia ogni giorno un orizzonte più corto. Tutto dev’essere consumato al più presto possibile, prima che svanisca. L’effimero è la cifra dei tempi leggeri. Domani è un altro giorno e i patti servono per essere rotti.

La dura realtà che c’impone di affrontare la pandemia da coronavirus, con disastrose conseguenze sulla vita l’economia, è un banco di prova formidabile per verificare quanto solide sono le parole date, in forma di contratto o semplicemente di promessa.

Se c’è un modo per non sfibrare il tessuto delle relazioni – con le conseguenze che possiamo immaginare – è mantenere il punto. Non mollare. Farsi trovare saldi nelle posizioni. Costruire le condizioni perché ci si possa fidare gli uni degli altri.

Vale per le persone, vale per le organizzazioni di ogni tipo, vale per gli Stati. Tutti noi sappiamo valutare quanto ci sia di vero o di pretestuoso in ogni manifestazione del pensiero. La nuova nobiltà che nascerà dal disastro si legittimerà sul valore della parola.