“Il vaccino del coronavirus l’abbiamo già. Sicuramente Moderna ha già fatto esperimenti su volontari sani. Gli esperimenti sono stati fatti a Seattle, a Oxford e in Australia. Il problema non è avere a disposizione il vaccino, ma produrlo in quantità sufficienti e distribuirlo globalmente a miliardi di persone e questo richiede moltissimi soldi e tanto tempo”. Lo afferma Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs di Bergamo, secondo il quale “tra i farmaci risultati efficaci nell’inibire la replicazione del virus Sars-CoV-2 in colture di cellule e nel trattamento di infezioni da coronavirus, come quello della Mers, in modelli animali ci sono il remdesivir, la combinazione lopinavir/ritonavir, la clorochina e l’idrossiclorochina”. In caso di cure a domicilio, “dove non ci sono le condizioni per un ricovero ospedaliero, è importante che anche a casa sia disponibile la somministrazione di ossigeno”. E prima di avviare la fase 2, sarà necessario adottare “sei precauzioni di carattere sanitario”.
In tutto il mondo è in atto una corsa frenetica al vaccino. Si contano all’incirca una sessantina di candidati vaccini. Anche l’Italia partecipa a questa corsa con la Irbm di Pomezia, il cui candidato vaccino è già in fase di test su volontari. Da dove dobbiamo aspettarci le speranze maggiori?
È molto difficile dire chi arriverà prima. Il primo studio nell’uomo di un vaccino sperimentale per prevenire Covid-19 è già cominciato certamente negli Stati Uniti – la company si chiama Moderna -, oltre a un gruppo di Oxford che fra l’altro collabora con ricercatori di Pomezia. Si tratta di un vaccino sintetico che non utilizza il virus, ma le informazioni contenute nel suo genoma, già pubblicate nelle banche dati e accessibili alla comunità scientifica. Serviranno molti altri test, però, per verificare che questo materiale sia davvero capace di indurre una risposta immunitaria. Le fialette sono già arrivate all’Istituto nazionale per le malattie infettive, branca del Nih, in modo che possano cominciare i primi studi nell’uomo. Per l’estate o forse anche prima avremo i primi risultati, la commercializzazione richiederà dell’altro tempo e per immunizzare la popolazione mondiale ci vorranno anni e moltissimi soldi. Il punto è il tempo che servirà da quando un vaccino è pronto ed è stato testato nell’uomo a quando si potrà immunizzare un’intera popolazione: come è stato fatto per la polmonite o per il vaiolo passano per forza anni.
Lei ha detto che arriveremo presto al vaccino, entro la fine dell’anno. Perché ne è convinto?
Perché il vaccino l’abbiamo già. Sicuramente Moderna ha già fatto esperimenti su volontari sani. Gli esperimenti sono stati fatti a Seattle, a Oxford e in Australia. Il problema non è avere a disposizione il vaccino, ma produrlo in quantità sufficienti e distribuirlo globalmente a miliardi di persone e questo richiede moltissimi soldi e tanto tempo.
In Italia si stanno utilizzando diversi farmaci a uso compassionevole e l’Aifa ha autorizzato alcune sperimentazioni. Con quali evidenze? Avremo presto una cura efficace?
Oggi, la terapia prevede nei casi lievi il solo trattamento dei sintomi. Per esempio, l’assunzione di farmaci antipiretici per la febbre e la somministrazione di ossigeno e di liquidi in caso di polmonite, terapia di supporto, in attesa che il sistema immunitario sconfigga l’infezione virale. Sono attualmente in corso studi clinici per valutare l’efficacia di alcuni farmaci nel ridurre la durata della malattia.
Ci sono terapie ritenute più promettenti dalla comunità scientifica?
Per esempio, il remdesivir, un farmaco antivirale sperimentale studiato in precedenza, con risultati insoddisfacenti, per il trattamento dell’infezione da virus Ebola; la combinazione lopinavir/ritonavir, già in commercio e utilizzata per il trattamento dell’Hiv; la clorochina e l’idrossiclorochina, farmaci usati per il trattamento della malaria e (idrossiclorochina) per l’artrite reumatoide. Questi farmaci sono risultati efficaci nell’inibire la replicazione del virus Sars-CoV-2 in colture di cellule e nel trattamento di infezioni da coronavirus, come quello della Mers, in modelli animali. Uno studio clinico condotto in Cina su pazienti con gravi sintomi di Covid-19 non ha documentato l’efficacia di lopinavir/ritonavir, ma altri studi sono in corso. Recentemente, ai farmaci già elencati, si è aggiunto il favipiravir. Si tratta di un farmaco antivirale approvato in Giappone per l’uso come antinfluenzale e che sembrerebbe essere risultato efficace in due studi condotti in Cina. L’Agenzia italiana del farmaco sta valutando la possibilità di avviare una sperimentazione di questo medicinale in Italia. Inoltre, la Cina ha autorizzato l’uso del tocilizumab, un anticorpo monoclonale già utilizzato nella terapia dell’artrite reumatoide, per il trattamento.
Se e quando potranno essere “sdoganati” questi farmaci, rendendoli disponibili, magari a certe condizioni, ai medici di base per eventuali cure a domicilio?
Cortisone, Cox 2 inibitori, paracetamolo e antibiotici quando indicati sono già disponibili per i medici di base. La cosa fondamentale, dove non ci sono le condizioni per un ricovero ospedaliero, è che anche a domicilio sia disponibile la somministrazione di ossigeno.
Anche l’Istituto Mario Negri di Bergamo sta lavorando a un farmaco che fa ben sperare. Di cosa si tratta?
Stiamo lavorando su due linee di ricerca molto promettenti: la prima, utilizzando farmaci che agiscono sul sistema del complemento e della coagulazione; la seconda, utilizzando gli anticorpi di pazienti guariti per curare chi è ancora malato.
Si discute molto di fase 2. Con quali tempi e con quali precauzioni sanitarie si può uscire dal lockdown?
Bisogna predisporre sei precauzioni. Innanzitutto, convocare non gli accademici, che non hanno i dati, ma i dirigenti medici di grandi aziende tuttora in attività – quali banche, Poste, Leonardo, grande distribuzione – per ottenere informazioni sui possibili contagi dei lavoratori, a contatto e non col pubblico. Informazioni confidenziali fanno ritenere che i contagi siano stati nulli o trascurabili nel mese di aprile tra i lavoratori in attività. Se confermati, tali dati sarebbero di estrema utilità.
Seconda precauzione?
Aprire tutto il sistema produttivo a tutti i lavoratori sotto i 40 anni, che hanno rischi trascurabili o nulli di seria patologia da Covid-19, se non affetti da grave co-morbilità – o anche sotto i 50 anni, per i quali i rischi sono comunque molto piccoli.
In terzo luogo?
Mantenere le strutture con la missione specifica di gestire pazienti Covid-19 anche nella fase di discesa e dopo la fine dell’epidemia, nell’ipotesi di ulteriori ondate epidemiche. Per esempio, per l’area di Bergamo: Seriate.
Quarta misura sanitaria da adottare?
Mantenere ragionevoli misure di distanziamento, pur riaprendo strutture alberghiere, bar, ristoranti eccetera, mentre i luoghi di grande aggregazione – stadi, feste di vario tipo – vanno riaperti solo dopo l’accertata fine della epidemia.
Il quinto step?
Adottare screening con test sierologici solo dopo la loro confermata validità, e se possibile semplificati (prelievo dal polpastrello): questi test hanno e avevano dei problemi, ma dopo averli validati non c’è ragione di non utilizzarli.
Sesta e ultima precauzione sanitaria?
Istituire strutture per la riabilitazione respiratoria per chi è stato dimesso dopo le cure intensive; avremo migliaia di pazienti dimessi dagli ospedali con danni polmonari cronici permanenti che avranno bisogno di aiuto. Per esempio, per l’area di Bergamo: Piario, che è bellissimo e aveva già questa vocazione ai tempi della tubercolosi.
I virologi si attendono una seconda ondata dell’epidemia. Quando potrebbe arrivare? E per affrontarla quali errori dovremo evitare di ripetere?
Per evitare il diffondersi dell’epidemia è necessario fare quello che è stato fatto in Corea del Sud: identificare tutte le persone che hanno avuto contatti con qualcuno positivo o ammalato e isolarlo per 15 giorni. Ma per far questo là sono servite 1.800 squadre di cinque persone ciascuna, un’organizzazione impressionante fatta di App e droni per rintracciare tutte le persone, poi identificarle, fargli il tampone e tenere in isolamento quelle che risultano essere positive. Se si tratta di focolai piccoli, sarà molto più semplice.
Il ministro Boccia in una recente intervista ha dichiarato: “Chiedo alla comunità scientifica, senza polemica, di darci certezze inconfutabili e non tre o quattro opzioni per ogni tema. Pretendiamo chiarezza, altrimenti non c’è scienza”. Come uomo di scienza che cosa risponde?
Purtroppo la scienza è fatta di dubbi e di incertezze. Le certezze inconfutabili non esistono nella scienza, quello che è certo oggi può non esserlo più domani alla luce di nuove conoscenze. Questa per esempio è una posizione chiarissima e contemporaneamente è una posizione scientifica, cioè siamo legati alle evidenze che ci sono in quel momento. All’inizio dell’epidemia, per esempio, tutti parlavano di polmonite interstiziale. Pensavamo fosse una polmonite come tutte le altre. Quando abbiamo cominciato a studiare attentamente i casi man mano che arrivavano alla nostra osservazione ci siamo accorti che il quadro radiologico e il quadro Tac non erano quelli di una polmonite interstiziale convenzionale. Adesso sappiamo che questi ammalati muoiono soprattutto di embolia polmonare e trombosi. Era scienza prima ed è scienza adesso, ma le cose nel frattempo sono cambiate e, come vede, le certezze inconfutabili hanno le gambe corte.
(Marco Biscella)