Alcune nubi si stanno addensando sui vaccini di contrasto al virus, strumenti considerati dalle pubbliche autorità come essenziale “luce” nel tunnel dell’epidemia sanitaria. Con danno evidente su quella diffusa e spontanea adesione che è presupposto indispensabile per l’efficacia di qualunque campagna vaccinale. La presenza di queste nubi, va subito detto, ricade in buon parte sulle stesse istituzioni, nazionali e non solo.
Partiamo dal livello europeo. È noto che nello scorso giugno è stato raggiunto un accordo tra la Commissione e gli Stati membri per attribuire alla Commissione stessa il mandato sugli Apa (Advance Purchase Agreements), cioè sugli accordi di pre-acquisto dei vaccini con le aziende produttrici. Nell’art. 7 dell’Annesso alla decisione della Commissione, si afferma chiaramente che gli Stati si impegnano a “non avviare proprie procedure” con le stesse aziende. Un impegno che, al di là della cortina fumogena che ora si sta stendendo, appare smentito dai fatti più recenti. Ma se l’Unione vuole sopravvivere, come istituzione capace di riscuotere fiducia nei cuori dei cittadini, non può consentire la guerra dei contratti per i vaccini. E nessuno Stato membro può fare la parte del leone in violazione del patto siglato con gli altri Stati e la Commissione.
Passiamo al livello nazionale. Qui la situazione sconta, purtroppo, la persistente disarticolazione del tessuto istituzionale, resa ancor più grave del continuo sovrapporsi di indirizzi disomogenei. A tacer d’altro, basta scorrere il “Piano strategico per la vaccinazione”, aggiornato al 12 dicembre 2020, e le “raccomandazioni per l’organizzazione della campagna vaccinale” del ministero della Salute, che, per l’appunto, sono soltanto “raccomandazioni”. In questi documenti è palese l’indecisione che ancora regna, ad esempio, sui destinatari e sulla tempistica della vaccinazione. Le principali indicazioni sono declinate al futuro (“si opererà”, “saranno definite”, “potranno essere realizzate”, etc.). Così ancora rinviando scelte decisive per la vita delle persone e per l’intera collettività, e diffondendo dubbi e incertezze sul percorso vaccinale.
Per il momento si è deciso di vaccinare gli operatori sanitari e il personale e gli ospiti delle Rsa (definiti come “categorie target”), poi si deciderà. Per non parlare della distinzione dei compiti tra amministrazioni dello Stato e delle Regioni, dato che a quest’ultime è affidata l’elaborazione dei piani regionali vaccinali. Le raccomandazioni ministeriali preannunciano una “governance assicurata dal coordinamento costante” tra le molteplici istituzioni coinvolte, ma, considerati i precedenti e senza innovativi e più incisivi strumenti di coordinamento, il rischio di fallimento è alle porte.
Se poi si leggono i documenti rilasciati dall’Aifa sul vaccino sinora “simbolicamente” utilizzato in Italia, si notano alcune incertezze nelle indicazioni circa le modalità di somministrazione. Ad esempio, nel modulo di consenso si prescrive in modo netto che “il vaccino non può essere somministrato alle donne in gravidanza e in fase di allattamento”. Diversamente, nel bugiardino allegato al vaccino appare un semplice avviso: “Se è in corso una gravidanza, se sospetta o sta pianificando una gravidanza o se sta allattando con latte materno chieda consiglio al medico o al farmacista prima di ricevere questo vaccino”. Posizione possibilista, ma in altri termini è espressa nell’allegato 1: “la somministrazione (…) durante la gravidanza deve essere presa in considerazione solo se i potenziali benefici sono superiori ai potenziali rischi per la madre e per il feto”. A chi si deve dare retta?
Ancora, tra i danni arrecati dall’epidemia in corso vi è la perniciosa tendenza alla tracimazione delle basi costituzionali del nostro diritto. In particolare, si è sostenuta la seguente lettura estensiva dell’art. 2087 del codice civile: il rifiuto di vaccinarsi contro il Covid-19, anche in assenza di obbligo legislativo, costituirebbe “impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro”. In sostanza, il lavoratore non vaccinato si esporrebbe al rischio del licenziamento, se il datore di lavoro ritenesse la vaccinazione una delle misure “obbligatorie” per la sicurezza dei suoi lavoratori.
A nostro avviso, questa interpretazione è assolutamente contraria sia al dettato legislativo che alla Costituzione. Infatti, l’art. 2087 c.c. pone un obbligo a carico non dei lavoratori, ma dell’imprenditore, ed esattamente l’obbligo di adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Questo obbligo non può essere arbitrariamente trasformato nell’obbligo – imposto stavolta a carico dei lavoratori – di sottoporsi ad un trattamento sanitario in violazione di quanto previsto dall’art. 32 della Costituzione. Qui si prescrive che un trattamento sanitario può essere reso obbligatorio solo se così è espressamente previsto da una “disposizione di legge”, per di più nei “limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Quindi, in mancanza di una espressa volontà del legislatore che imponga il vaccino, nessuna norma può essere interpretata come fonte dell’obbligo di questo trattamento sanitario, neppure nei rapporti di lavoro. Soprattutto, il principio costituzionale della libertà di cura impedisce che vi siano conseguenze sfavorevoli a carico di chi, in assenza di un espresso obbligo di legge, non si sottoponga ad un trattamento sanitario che altri ritengano, secondo la loro individuale, soggettiva e discrezionale opinione, utile o necessario per tutelare la propria o altrui salute. E ciò sarebbe ancor più inaccettabile qualora comportasse la compressione di diritti costituzionalmente garantiti (di lavoro, di istruzione, di riunione, di circolazione, e così via), e tanto più quando questi obblighi fossero sostanzialmente “imposti” da chi si trova in posizione di forza dal punto di vista sociale. Insomma, la tutela costituzionale dei nostri diritti deve valere sia nei confronti dei poteri pubblici, sia nei confronti dei “poteri privati”, perché altrimenti sarebbe gravemente leso il principio di eguaglianza.
Pertanto, solo per fare un esempio, il cosiddetto “passaporto vaccinale” potrebbe essere richiesto da un qualunque soggetto come condizione di accesso ad un luogo pubblico o ad un’istituzione del sistema nazionale di istruzione e formazione, solo se la legge lo prevedesse e lo consentisse. Infatti, la Costituzione esige che le scelte che impongono limiti e coercizioni alle libertà individuali, anche e tanto più in materia di salute, spettino al Parlamento, ai nostri rappresentanti, e debbano essere espresse mediante la legge. Solo alla legge compete individuare il ragionevole punto di equilibrio tra interessi diversi o addirittura contrastanti, come, nel nostro caso, tra la libertà di curarsi e l’obbligo di sottoporsi al vaccino per ragioni di salute collettiva.
Per concludere, soprattutto nelle situazioni di crisi, la democrazia esige istituzioni efficienti, trasparenti e responsabili delle decisioni assunte. Non si può consentire che alcuno si arroghi il potere di sostituirsi al Parlamento, imponendo in via di fatto regole limitative delle nostre libertà. Anche davanti al virus, non possiamo accettare il ritorno alla legge del più forte. Vincerebbe il Leviatano di turno.