Il virus muta ancora, come successo per le varianti brasiliana e sudafricana, e la variante inglese avrebbe acquisito proprio la mutazione di quest’ultima. Arriva da Londra l’allarme, la variante è stata già battezzata: E484k. Mentre la campagna vaccinale nel nostro Paese procede a rilento, diventa sempre più urgente spingere l’acceleratore sui vaccini per non vanificare gli sforzi fatti. Casi sospetti di variante brasiliana sono stati già registrati in Abruzzo e segnalazioni arrivano ora anche dall’Umbria. Le continue mutazioni del virus rischiano di mettere in discussione l’efficacia, oltre che dei vaccini, anche degli anticorpi monoclonali? E, a fronte del taglio delle forniture di vaccini o comunque dei ritardi nell’approvvigionamento da parte di Pfizer e delle altre aziende produttrici, la notizia dell’elevata efficacia del vaccino russo è destinata a incidere positivamente sulla lotta al Covid-19 in Europa e nel mondo? Lo abbiamo chiesto a Roberto Cauda, professore di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Professore, il virus continua a mutare, qual è il meccanismo che si mette in atto?
I virus replicandosi mutano e le mutazioni a cui vanno incontro possono essere di varia natura. Molte variazioni non hanno futuro perché non danno un vantaggio biologico, una mutazione più trasmissibile invece offre un vantaggio biologico e tende a soppiantare le varianti che prima non circolavano. Sono più di cento milioni ormai le persone colpite al mondo, pensi quante replicazioni fa il virus e quante possibilità di mutazioni esistono. C’è da dire che questo virus, contrariamente agli altri, ha una minore capacità di mutare, però, visto il numero di soggetti colpiti, va comunque incontro a mutazioni. Le varianti insorgono perché il virus muta replicandosi.
La variante inglese avrebbe acquisito la mutazione sudafricana. Cosa significa?
Le mutazioni, che poi danno origine a quelle che sono definite varianti – come quella inglese, brasiliana, sudafricana – possono avere una loro casualità, non necessariamente si combinano fra loro. È di questi giorni peraltro la notizia della maggiore trasmissibilità del virus nella variante inglese, segnalata dai ricercatori del Regno Unito. Andando a vedere quale tipo di malattia determinasse la variante, hanno riscontrato che la mutazione inglese dà una maggiore presenza di sintomi, elemento che potrebbe favorire anche una maggiore trasmissibilità. Tra i sintomi, in particolare, rispetto alla variante precedente sembra che la perdita del gusto e dell’olfatto sia meno frequente. Si discute ancora se abbia anche una maggiore gravità clinica, ma al momento non c’è alcun dato definitivo.
Ci sono state notizie di casi di variante brasiliana in Abruzzo e ora anche in Umbria. I vaccini sono a rischio?
Le varianti inglese e sudafricana sono efficacemente contrastate dai vaccini esistenti, Pfizer e Moderna. Per quello che attiene alla variante brasiliana si sta ancora valutando e non c’è un dato certo, ma ove anche – e questa è una mia opinione – vi fosse una minore efficacia, comunque una protezione il vaccino continuerebbe a darla. Le mutazioni avvenute oggi non sono di tale entità da intaccare ancora la struttura virale, gli anticorpi prodotti a seguito della vaccinazione sono in grado di contrastare efficacemente il virus. Questo però ci insegna una lezione.
Quale?
Le varianti le trovi se le vai a cercare, vengono messe in evidenza grazie a un sequenziamento massiccio. Nel Regno Unito, contrariamente a quello che si fa in Italia (anche se avevano promesso che l’avrebbero fatto) si fa il sequenziamento del virus e si va a vedere se in determinati punti vi siano mutazioni dell’acido nucleico virale. La mutazione inglese, la B117, è stata chiamata VOC, acronimo di “Variant of Concern”, la variante di preoccupazione: nel momento in cui si trova una mutazione si va a vedere anche che cosa significa questa mutazione.
E la lezione qual è?
La lezione e la morale che dovremmo trarre da questo è che la vaccinazione dovrebbe procedere in forma spedita e coinvolgere il maggior numero possibile di persone. I virus mutano perché si replicano, solo se al virus togli terreno potrà fare un passo indietro. I vaccini non servono solo per la protezione individuale: quanto più aumenti la platea dei vaccinati, tanto più riduci le persone suscettibili al virus e quindi il rischio di mutazioni. E poi c’è anche un’altra morale che dobbiamo trarre da questo.
Cioè?
Il Papa ha detto che il vaccino deve essere universale e questo è giusto, al di là della solidarietà, anche per un altro motivo. Se continuiamo ad avere focolai in continenti in cui la vaccinazione non viene effettuata in maniera capillare, il rischio di mutazioni resistenti al vaccino potrebbe insorgere: alla lunga, perché oggi non è ancora questo il caso.
Al momento quindi non corriamo questo rischio.
I vaccini che abbiamo, sia quello a Rna usato da Moderna e Pfizer sia quello a Dna che codifica la proteina spike, con l’adenovirus che fa da vettore, sono stati costruiti in laboratorio sulla base delle sequenze conosciute. Se il virus cambiasse sequenza cambierebbe un po’ il senso della “frase”, ma si tratta di una tecnologia molto versatile, in grado comunque di riconoscere il virus. Al momento quindi il rischio effettivamente non c’è. Se dovesse esserci una mutazione tale da creare questo rischio, non ci vorrebbe comunque moltissimo per allestire un vaccino in grado di coprire la mutazione, ma, ripeto, non è qualcosa in cui dobbiamo in questo momento preoccuparci.
Come accoglie la notizia dell’elevata efficacia del vaccino russo?
È un’ottima notizia, la performance è superiore al 91% da quanto si legge su The Lancet e ha una buona tollerabilità, ma vorrei ricordare che ci sono anche i vaccini cinesi, di cui si parla meno. Anche in questo caso sono stati pubblicati i dati. La Cina ha vaccinato un numero importante di persone, forse non rilevante percentualmente, visto che parliamo di una popolazione di oltre un miliardo di persone. Percentualmente chi ha vaccinato di più è Israele, un vero esempio virtuoso. Anche nel Regno Unito la percentuale è piuttosto elevata, certamente superiore a quella dell’Italia e di altri Paesi europei.
I vaccini cinesi e quello russo quale tecnologia seguono?
In Cina ci sono diversi vaccini, tra cui quello basato sulla stessa tecnologia di Astrazeneca e Sputnik V: un Dna associato a un vettore adenovirus inerte che consente di entrare nella cellula, assolvendo alla funzione che nel vaccino di Pfizer è svolta dalla capsula lipidica che veicola l’Rna. Ricapitolando, Pfizer e Moderna sono vaccini a Rna, il vaccino russo e il vaccino cinese di cui parlavo sono vaccini a Dna. In Cina poi c’è anche il vaccino convenzionale, usato peraltro negli Emirati Arabi: si basa su un virus inattivato simile al virus intero, è un vaccino molto più simile a quelli che conoscevamo già, come quelli contro l’influenza.
Come procede il progresso degli anticorpi monoclonali, sia come cura che come strumento immunizzante?
Da un punto di vista scientifico siamo a un buon punto, è una tecnologia che si applica anche a Covid-19 dopo che in passato è stata ampiamente utilizzati in ematologia, oncologia, reumatologia – pensi al trattamento dell’artrite reumatoide, cambiato in maniera drastica grazie agli anticorpi monoclonali –, e nei trapianti. È una tecnologia nota, che ha ragione d’essere nel caso del Covid perché di fatto non c’è ancora un antivirale. Lo stesso Remdesivir è qualcosa di adattato, con dei risultati a volte buoni e a volte meno buoni.
Qual è l’indicazione specifica?
L’anticorpo monoclonale va dato precocemente e copre la lacuna della fase iniziale, serve a bloccare la diffusione del virus, non per bloccare l’infezione già in atto, ma per prevenire le forme più gravi, come quelle che portano in rianimazione o addirittura al decesso. Al momento ci sono dei farmaci che hanno mostrato una certa efficacia, ad esempio i corticosteroidi, le eparine a basso peso molecolare, ma sono quelli della fase infiammatoria più avanzata, mentre nella fase iniziale, che poi determina la fase successiva, non c’è un antivirale indicato.
Però gli anticorpi monoclonali vengono usati poco.
Perché è una tecnologia che, per il Covid, si sta sviluppando adesso. L’altra cosa che si è appresa da studi condotti in America è che un anticorpo monoclonale unico non è utile, occorre un cocktail, più anticorpi monoclonali che riconoscendo componenti diverse, quasi sempre sulla spike del virus, riescono a bloccarla. Altrettanto importante è il fatto che al momento gli anticorpi monoclonali vengono dati per via endovenosa, quindi c’è anche necessità di una struttura che possa identificarsi per la somministrazione.
Gli ospedali?
Trattandosi di soggetti perlopiù all’inizio della malattia non sempre sono ospedalizzati, c’è un problema tecnico evidentemente.
L’efficacia degli anticorpi monoclonali è in qualche modo messa in discussione dal proliferare delle varianti?
Rispetto alle varianti non lo sappiamo fino in fondo, come non lo sappiamo per i vaccini. Direi che usando un cocktail di monoclonali non dovrebbero esserci grandi problemi, almeno in questo momento. Il problema dei monoclonali consiste piuttosto nel fatto che bisogna identificare i pazienti a cui darli. Stiamo parlando di una malattia che per l’80% ha pochi sintomi o è asintomatica, solo in una percentuale minore può avere dei sintomi (circa il 10%) e in una percentuale ancora più ridotta va incontro a forme gravi. Non è compito mio dire quale potrebbe essere l’indicazione, ma si potrebbe pensare ai soggetti più fragili, agli anziani, i soggetti in cui la malattia potrebbe decorrere in forma più grave. È tutto un libro aperto, da scrivere, e saranno gli organi regolatori a scriverlo.
Fughiamo una volta per tutte e in modo scientifico il dubbio di quelli che dicono: non mi faccio il vaccino perché modifica il mio Dna.
I vaccini prevengono la malattia e quasi sicuramente – a mio giudizio – anche l’infezione. Si tratta di materiale sintetizzato che viene poi eliminato dall’organismo. La supposta eventualità che questo materiale possa andare incontro a un’integrazione genomica è enormemente più alta, semmai, col virus, non col vaccino, che è assolutamente sicuro. Perché dovrebbe integrarsi il materiale genetico del vaccino che è sintetico e viene dismesso e non quello del virus, che ne produce milioni e milioni di copie, replicandosi?
Lei si è vaccinato?
Come personale sanitario ho fatto oggi la seconda dose e sto bene. Non sono tranquillo, sono tranquillissimo.
(Emanuela Giacca)
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