“Primo: è importante ricordare che il candidato vaccino Pfizer-BionTech, prodotto in meno di 10 mesi, è il primo vaccino costituito da un Rna modificato, assieme a quello di Moderna Biotech, a essere entrato in clinica, anche se ancora in fase 3. Finora sono stati utilizzati sull’uomo vaccini antivirali contenenti virus uccisi, virus vivi attenuati, proteine ricombinanti, vaccini a Dna e vaccini veicolati da vettori originati da virus modificati e resi apatogeni. Quindi, non appartenendo ancora a una piattaforma tecnologica vaccinale ben consolidata, questo vaccino è del tutto innovativo e non se ne conoscono ancora gli effetti collaterali. Secondo: la fase 3 non è ancora terminata, siamo in una fase di interim analysis che è al vaglio dell’Fda, l’ente federale americano per la valutazione dei nuovi prodotti farmaceutici, che dovrà pronunciarsi sui dati di efficacia e di sicurezza. Terzo: l’annuncio della Pfizer non va confuso con la pubblicazione di uno studio che può essere valutato dalla comunità scientifica. Quarto: solo una parte dei soggetti vaccinati ha ricevuto una seconda dose e non si conosce ancora la durata della risposta immunitaria e a quale delle sue componenti – umorale, cellulo-mediata, innata – sia da attribuire l’efficacia antivirale”. All’indomani dell’annuncio di Pfizer, un invito alla cautela arriva da Giorgio Palù, virologo emerito dell’Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia. Stessa cautela si impone davanti alla notizia che la Fda americana ha dato il via libera d’urgenza all’uso del trattamento anti-Covid-19 a base di anticorpi della Eli Lilly, da somministrare nelle strutture sanitarie per curare infezioni di limitata entità in adulti e bambini. Il motivo? “Come per i farmaci e per i vaccini, dobbiamo attendere la fase 3, perché al momento Eli Lilly è in fase 2, pur se i dati preliminari, come quelli ottenuti con altre combinazioni di anticorpi monoclonali, vedi Regeneron, sono molto incoraggianti”.
Il trattamento a base di anticorpi monoclonali della Eli Lilly è comunque il primo che riceve l’autorizzazione della Fda. Di cosa si tratta?
Gli anticorpi monoclonali sono diretti contro l’antigene principale, la proteina S, che permette al virus di legarsi al recettore cellulare – l’Ace2 è il recettore principale di Sars-CoV-2 – e di dare l’avvio all’infezione; agiscono quindi neutralizzando l’infettività virale, inibendo l’ingresso del virus nella cellula. Sono molecole altamente specifiche e reattive che, semplificando, rappresentano la versione ingegnerizzata della terapia con plasma iperimmune ottenuto da soggetti guariti dal Covid-19. Terapia a tutt’oggi praticata in protocolli sperimentali e/o in forma compassionevole, la cui efficacia è stata dimostrata anche in studi controllati, anche se accompagnata da effetti collaterali dovuti a reazioni acute al plasma.
Gli anticorpi monoclonali sono una terapia promettente ed efficace?
Direi proprio di sì dai risultati di fase 1 e 2. Ricordiamo che gli anticorpi monoclonali agiscono come un farmaco e non come un vaccino e come tutti i farmaci antivirali sono efficaci se somministrati nelle prime fasi della malattia.
Qual è la differenza?
Un vaccino previene l’infezione, quindi va somministrato a un paziente non ancora infettato. Gli anticorpi monoclonali vanno dati a soggetti che hanno già contratto la malattia.
Gli anticorpi monoclonali garantiscono o favoriscono una guarigione rapida?
Da quel che abbiamo visto sinora sembra proprio di sì. Però, come per i vaccini, dobbiamo attendere la fase 3, perché al momento Eli Lilly è ancora in fase 2. L’Fda ha dato l’autorizzazione al loro impiego per un uso sperimentale su soggetti che abbiano sintomi chiari della malattia.
Come si ottiene l’anticorpo monoclonale?
Clonando dei linfociti B, le cellule produttrici di anticorpi, che derivano da soggetti che sono guariti dalla malattia e hanno sviluppato anticorpi neutralizzanti. Si purifica e si espande la cellula in grado di produrre l’anticorpo dotato di maggiore affinità e maggiore attività anti-Sars-CoV-2 e tramite ingegneria genetica si sintetizza l’anticorpo in questione. Grazie a questi approcci di biologia cellulare e molecolare si possono produrre gli anticorpi monoclonali in quantità sufficienti per impiego terapeutico, anche se a costi necessariamente elevati, dovuti alle tecniche di purificazione e produttività su scala industriale.
Ci sono altre miscele di anticorpi?
C’è anche la miscela di anticorpi prodotta da Regeneron, con cui è stato trattato con successo anche Donald Trump, e che è diretta contro diversi epitopi della proteina S.
Sul fronte dei vaccini, invece, Pfizer ha annunciato che il suo candidato vaccino, prodotto in collaborazione con la BionTech, è sicuro per oltre il 90%. È una buona notizia?
Non abbiamo ancora visto una pubblicazione scientifica, sappiamo che questo vaccino si basa sugli stessi princìpi di quello a cui sta lavorando Moderna, la biotech Usa che per prima ha sviluppato un vaccino anti-Sars-CoV-2 appena 10 giorni dopo la pubblicazione della sequenza del genoma virale.
Su cosa si basa il vaccino della Pfizer-BionTech?
Sull’Rna messaggero che codifica la proteina S, lo stesso bersaglio molecolare contro cui si generano gli anticorpi neutralizzanti. Pfizer ha battuto sul tempo Moderna, ma entrambe sono ancora in interim analysis. La corsa al vaccino procede molto spedita. Mentre una volta le aziende prima completavano i loro studi, poi diffondevano un resoconto definitivo e dettagliato agli enti regolatori, oggi forniscono a questi enti un’analisi ad interim, cioè in corso di sperimentazione. Ma l’annuncio di Pfizer non è una pubblicazione scientifica, stiamo ben attenti, è l’annuncio mediatico di un’industria farmaceutica, che ha fatto rimbalzare con forza non solo le azioni Pfizer, ma tutte le Borse mondiali.
La stessa Pfizer ha ammesso che non bastano i dati sulla sicurezza finora raggiunti per chiedere l’autorizzazione d’emergenza, che comunque dovrebbe avvenire entro la terza settimana di novembre. Quali saranno i prossimi passi?
Pfizer ha dichiarato di aver trasmesso alla Fda i dati di efficacia su oltre 40mila soggetti vaccinati, di cui metà con placebo e metà con vaccino. Un vaccino a Rna deve essere modificato nella componente nucleotidica, in quanto la molecola di Rna naturale di un virus introdotta nelle nostre cellule riconosce come estranee queste sequenze e stimola immediatamente una reazione dell’immunità innata.
Con quali possibili effetti?
Non solo possono essere alterati i meccanismi che regolano la fisiologia della risposta immunitaria adattativa, ma si possono produrre anche effetti nocivi, quali iperinfiammazione e autoimmunità, proprio quello che si vuole evitare.
Giusto quindi evitare facili trionfalismi?
Non sono passati neppure 10 mesi da quando è stata pubblicata la sequenza del Sars-CoV-2 e già si parla di un vaccino: non si è mai visto un vaccino che così rapidamente fosse proposto per uso sperimentale. Adesso però aspettiamo di vedere che cosa dirà la Fda.
Il processo potrebbe quindi subire dei rallentamenti?
Sicuramente. Bisognerà vedere se si presentano effetti collaterali. Non solo: siccome questo virus è progressivamente mutato avendo infettato più di 50 milioni di persone – circolano attualmente almeno 6 cladi di Sars-CoV-2, ceppi che hanno in comune un unico progenitore -, bisognerà vedere se il vaccino protegge da tutti i virus circolanti e quanto dura l’immunità: si parla di 4-5 mesi, ma andrà verificato. Bisognerà anche essere certi che il vaccino non produca effetti quali l’aumento dell’infettività da parte di varianti virali (antibody dependent enhancement) come riscontrato per altri vaccini (caso del vaccino anti-dengue). Ricordiamoci, infine, che un vaccino non dà mai la protezione del 100%, ma nei casi migliori del 95-97%. Se il 90% di protezione dichiarato da Pfizer fosse confermato, sarebbe un dato molto confortante.
Che cosa possiamo dire sulle dosi che verranno messe a disposizione?
Pfizer dice che metterà a disposizione 20 milioni di dosi, che saranno riservate a particolari categorie, in base a quello che stabiliranno gli enti regolatori, per l’Europa l’Ema, l’agenzia del farmaco. Ma poi, a chi le daranno queste dosi? Agli americani, agli israeliani?
Repubblica parla di un accordo per avere 1,7 milioni di dosi in Italia. Avremo però problemi di logistica nella distribuzione del vaccino?
Con 1,7 milioni di dosi potremmo solo sperimentare il vaccino sui soggetti particolarmente esposti al rischio infettivo, come il personale sanitario e il personale che svolge una funzione pubblica, sui soggetti più gracili come gli anziani con comorbosità e i residenti nelle case di ricovero per anziani. E saranno tutti disponibili a farsi vaccinare? In Cina il vaccino è stato somministrato ai militari, ma un cittadino normale può rifiutarsi. Quanto alla logistica, avremo tantissimi problemi: basta vedere quello che sta succedendo con il vaccino antipneumococcico o antinfluenzale. Bisognerebbe avere un’unica sede di approvvigionamento per l’Europa. Invece non c’è un unico procurement europeo, ma anche procurement che fanno capo alle Regioni.
Oltre a Pfizer, anche Moderna e Oxford/AstraZeneca sono quasi pronte con un loro candidato vaccino.
Moderna ha lo stesso tipo di approccio di Pfizer: Rna messaggero modificato, con rilascio in vivo in forma liposomiale o nanoparticelle.
Avremo allora più vaccini?
Questo è importante, in quanto non è detto che noi dovremo usare un unico vaccino o il primo che si rendesse disponibile. Può darsi che dovremo ricorrere a una combinazione di vaccini, perché sarà molto importante vedere quale sarà la risposta dell’immunità cellulare. Non c’è solo quella degli anticorpi.
Perché è importante l’immunità cellulare?
È quella che ci permette di vedere se un vaccino è efficace anche in un soggetto già infettato. Quando un soggetto ospita già il virus, l’eliminazione del virus dalle cellule infettate grazie all’intervento degli anticorpi è poco efficace, servono i linfociti citotossici antigene-specifici come nel rigetto di tessuti estranei o dei tumori. Ecco perché bisognerà vedere se avremo bisogno di una combinazione di più vaccini.
Sul fronte dell’epidemia, l’indice Rt in Italia è salito a 1,7. Stiamo andando verso un picco? E quando potrebbe arrivare?
Il martellamento dei casi comunicati tutti i giorni diffonde solo allarmismo. La pandemia ormai è diffusa e non ha più senso inseguire con i tamponi gli asintomatici, considerati anche i tempi lunghi di refertazione, specie al Centro-Sud. Oltre all’indice Rt, che in questa fase è un marcatore meno affidabile, dati i molti asintomatici e paucisintomatici, ci sono altri indici da considerare: per esempio, il tempo di raddoppio dei casi, che va monitorato sull’arco di più settimane. Va studiata anche la curva dei casi incidenti e se evolve in maniera lineare o esponenziale, sempre con andamento settimanale o quindicinale. E fra i marcatori più utili, sarebbe il caso di monitorare in quanto tempo si riempiono non tanto gli ospedali, dove per la paura si ricoverano anche pazienti con lievi sintomi, ma soprattutto le rianimazioni. Difficile fare previsioni sul picco: dipenderà dall’efficacia delle misure di contenimento adottate nei confronti di un virus che, come tutti i virus respiratori, ha le caratteristiche di stagionalità.
Le rianimazioni sono il vero indicatore di quella che è la capacità del sistema sanitario di far fronte alla pandemia?
Sì. A marzo-aprile abbiamo avuto in terapia intensiva oltre 4mila malati, oggi siamo a 2.900 su 560mila positivi, cioè lo 0,53%. Bisogna guardare quanti letti abbiamo disponibili in queste strutture – ne avevamo 7 su 100mila abitanti nella fase 1, quando i britannici ne avevano 5 e i tedeschi addirittura 30 su 100mila; adesso pare che abbiamo duplicato a 10mila i posti in terapia intensiva: sarà davvero così? – e qual è il tasso di occupazione, in un panorama regionale che è molto variegato. Ma soprattutto bisogna evitare di eccedere con i ricoveri di malati Covid-19 in area medica, favorendo le cure domiciliari per i pazienti meno gravi: ricordiamoci che Sars-CoV-2 è un virus a carattere nosocomiale.
Secondo lei, il sistema di monitoraggio dell’epidemia va cambiato? Servono dati di allerta più tempestivi?
Quando si danno le statistiche, i pazienti andrebbero divisi per fascia di età, per tasso di letalità in base all’età e per condizioni cliniche, nosologiche e patologiche dei pazienti: pazienti in fase iniziale con infezione del primo tratto delle vie respiratorie; pazienti in fase più severa con impegno polmonare; pazienti in fase critica con infiammazione diffusa e insufficienza cardio-respiratoria più grave e a rischio di sopravvivenza. Avendo questi dati si potrebbero dividere i pazienti per categorie nosologiche di rischio e fornire linee guida di terapia con farmaci che sappiamo essere efficaci (desametasone, eparina a basso peso molecolare) ai medici di medicina generale. Ma la medicina di comunità e territoriale è un problema che andava affrontato da subito.
Se entro domenica 15 novembre i dati dei contagi non migliorano, giusto adottare un lockdown generale?
Non si può escludere, anche se sarebbe preferibile fare dei lockdown circoscritti nel tempo e nello spazio, in linea anche con la decisione del governo di dividere l’Italia in tre fasce: rossa, arancione, gialla. Ma bisognerà guardare con obiettività alla velocità di diffusione del virus e al tasso di occupazione dei posti letto. Anche perché, una volta arrivati al lockdown generale e con i posti di terapia intensiva tutti occupati, che cosa facciamo?
(Marco Biscella)