, sempre Vettel, fortissimamente Vettel. Ormai non ci sono più aggettivi per descrivere la schiacciante superiorità del tedesco in questo Mondiale, una superiorità ribadita con la solita, disarmante nonchalance anche sul bellissimo tracciato di Austin, che non ha vissuto quella gara spettacolare che avrebbe invece meritato per la cornice di pubblico cha ha sfoggiato – alla faccia dell’interesse basso per la Formula 1 negli Stati Uniti da sempre presa coma alibi – e per i suoi ampi e bellissimi curvoni che ne fanno una splendida pista pro-sorpassi. Abbiamo invece assistito rassegnati al solito monologo del biondo tedesco che ha demolito l’ennesimo record, quello delle vittorie consecutive in Campionato oggi portato ad otto. In Brasile, nell’ultima gara della stagione, potrà raggiungere anche Michael Schumacher, per adesso unico detentore del limite di Gran premi vinti nell’arco di una stagione, tredici con la Ferrari nel 2004. Ma in quella stagione a vincere sempre era una Ferrari e la cosa suonava, specialmente a noi italiani ma non solo, in modo assai meno “dissonante” con il carico di prestigio, storia, mito che la Ferrari stessa rappresentava e rappresenta. Oggi, invece, il binomio Vettel-Red Bull che sta monopolizzando le classifiche e demolendo primati, comincia ad essere per tutti “ingombrante”: anche perché, diciamolo pure, che a dominare non sia Ferrari, McLaren, Mercedes o Lotus, ovvero nomi che hanno scritto gran parte della Storia della Formula 1 dal dopoguerra ad oggi, ma una scuderia di recente formazione e che porta il nome di una bibita energetica, non rappresenta esattamente l’ottimo anche per coloro che gestiscono la Formula 1 come business da rivendere. Da qui i cambi di regolamento che, almeno presumibilmente, introdurranno un po’ di quella entropia cui prima conseguenza dovrebbe essere l’incertezza nei risultati. Ma se nelle scorse “puntate” dei commenti alle vittorie di Vettel abbiamo tracciato un ritratto del campione, è ora di rendere merito anche alla sua scuderia perché, e questo è incontrovertibile, non si vince mai – o quasi mai – per caso. Se la Red Bull nella sua interezza – che normalmente, e a torto, viene ridotta alla genialità pur innegabile di Adrian Newey – è arrivata ad essere quello che è, lo deve al fatto di averci sempre creduto ed avere continuato a lavorare anche quando i risultati non c’erano o erano comunque sotto le aspettative. L’operazione-Red Bull nasce nel 2004 ed è una vera scommessa. La Jaguar, che cinque anni prima aveva a sua volta rilevato la scuderia fondata da Jackie Stewart per tornare in grande stile alla Formula 1, aveva miseramente fallito il suo intento. O meglio, non aveva più la pazienza di attendere risultati che dopo cinque anni di sforzi non arrivavano. Decise così di smantellare il team. Fu proprio la ex-Jaguar che Dietrich Mateschitz, magnate delle bibite già presente da diversi anni nel grande circus come sponsor in Sauber, decise di rilevare per entrare in prima persona nel grande circus. Red Bull già da qualche tempo stava costruendosi un posizionamento di marketing pesantemente legato allo sport ed in particolare agli sport “estremi” e vedeva nella Formula 1 un ulteriore ed interessante sbocco commerciale. L’operazione non fu certo una novità. Anzi, enormi sono le analogie con quello che fece venti anni prima la trevigiana Benetton che, dopo aver costruito un piccolo “impero sportivo” fatto di basket, pallavolo e rugby, sfondò in popolarità e vendite grazie alla Formula 1. Impressionano i punti comuni dei due progetti: Rocco Benetton, come Mateschitz, rilevò una scuderia intera, la piccola ma in piena ascesa Toleman, inaugurando una pratica che dopo di lui moltissimi hanno ripercorso e che prima era pressoché sconosciuta. Si affidò ad un uomo forte che interpretava il ruolo di team manager a 360° in modo innovativo: era Flavio Briatore che, di fatto, inventò il team principal come è inteso oggi e come lo intende Chris Horner. Briatore strappò il miglior tecnico del tempo alla concorrenza: Rory Byrne. E, soprattutto, esattamente come ha fatto con Vettel e con la BMW il geniale Helmut Marko – vero deus et machina della Red Bull cui prima o poi dedicherò un approfondimento tutto suo, dato che la sua storia merita di essere raccontata – il nostro Flavio soffiò quasi “di forza” alla Jordan un giovane talento per portalo sulle sue macchine: Michael Schumacher. La storia si ripete, quindi e insegna sempre come muoversi. L’austriaco Mateschitz non ha fato altro che ripetere quella esperienza scegliendo, e trovando, gli uomini giusti al posto giusto. A questi ha aggiunto l’ultimo ingrediente fondamentale senza il quale non si vince: la pazienza. Una pazienza che, nonostante i milioni di euro investiti, non hanno avuto in passato la Jaguar, la Toyota, la Honda o la BMW – tanto per fare dei nomi non esattamente “piccoli” – che non hanno creduto nei loro progetti pretendendo risultati subito e non a medio termine. La Red Bull ha vinto la sua prima corsa nel 2009, dopo anni di attesa e di sconfitte e dopo aver perfino subito l’onta di essere stata preceduta sul gradino più alto del podio dalla “satellite” Toro Rosso, che andava in pista con le vettura “scartate” dalla casa madre. Ma che aveva Vettel alla guida. E così, anche l’innovativa e inizialmente accolta con scetticismo operazione della “squadra B” – che, di nuovo, non inventava nulla ma ripercorreva quello che facevano tutti i grandi team con la F.2 fin dagli anni ’50 – si rivelò, invece, un successo. E un piccolo tassello nella costruzione del fenomeno-Red Bull.