Sono passate poco più di ventiquattro ore dall’incidente sciistico che sta tenendo sospeso Michael Schumacher tra la vita e la morte e sull’argomento è già stato detto e scritto di tutto, principalmente per riempire la scarsità di notizie che arrivano dall’ospedale di Grenoble in cui il sette volte Campione del Mondo di Formula 1 è ricoverato da ieri, dove è stato operato alla testa per ridurre il vasto ematoma formatosi nel suo cervello, dove è tenuto in coma farmacologico e dove nessun medico si sbilancia né sulle sue possibilità di vita, né su quale potrebbe essere, se ci sarà, l’eventuale percorso di recupero. Una situazione drammatica, per non dire forse disperata, sulla quale la famiglia ha chiesto un doveroso rispetto della privacy e che per questo vede le indiscrezioni uscire giustamente con il contagocce. Eppure già qualche solone dal moralismo facile si è lanciato a ricordare come Schumi non sia riuscito a placare quella sete di velocità e quella necessità di essere al contatto con il rischio che la sua professione gli rendeva famigliare, come se questo fosse il tratto di un bambinone incapace di crescere. Dimenticando, forse, che questa caratteristica era addirittura indispensabile a chi facesse il pilota da corsa soprattutto quando il rischio di restarci secco era palpabile e non certo lontano. Altri hanno ricordato le sue disavventure extra-pista, gli incidenti stradali o la caduta in Superbike del 2009 dipingendolo come una sorta di pericolo pubblico. I più si sono invece persi a discutere sul fatto che l’incidente sia avvenuto in pista o fuori pista, se se lo fosse in qualche modo “cercato”, taluni pure con malcelata stizza di fronte al fatto acclarato che indossasse il casco. Insomma, come sempre anche davanti a questa situazione drammatica pochi sono riusciti a pronunciare l’unica parola utilizzabile: “fatalità” o se, volete, “destino”. Perché il fatto che un uomo che passa trenta anni della sua vita a sfiorare muretti a trecento all’ora possa poi arrivare alle soglie della morte mentre scia con il figlio di quattordici anni è una fatalità. Ma in un mondo in cui il fato, o la sorte o il destino fanno paura, è impossibile restare di fronte ad un fatto così senza trovare un colpevole, una causa, una spiegazione. Per l’opinione pubblica, qualcuno deve pagare. Ma per fortuna esiste anche un mondo che vede un dramma per quello che è e che dimostra affetto e vicinanza, come è successo nel mare di messaggi di colleghi, nomi noti e persone comuni che si sono uniti nella vicinanza allo sfortunato campione. Quindi, come faremmo davanti al dramma di qualunque essere umano, ma ancora di più con Schumi per le emozioni che ci ha regalato negli undici anni con la Ferrari, per il suo straordinario talento, per la sua costanza, la sua tenacia, la sua preparazione, la sua educazione – perché non è mai andato sopra le righe anche quando ne avrebbe avuto le ragioni – la sua classe e perfino l’umanità che ha mostrato nel tornare in pista senza vincere, per cercare di placare quella sete così profondamente umana, per tutto questo non possiamo che dire: Forza, Campione. Conquista la 92esima vittoria. Quella più importante.



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