La Mercedes è Campione del Mondo. Lewis Hamilton ha messo un mattoncino fondamentale nella sua costruzione che lo porterà al secondo titolo iridato. La Ferrari ha arrancato al solito nelle retrovie alla ricerca del prossimo capro espiatorio che paghi la delusione di una stagione nata male. La Russia ha accolto il suo primo Gran Premio dopo cento anni – l’ultimo, ovviamente appartenente all’era pre-Mondiale, si era corso nel 1914, prima della Grande Guerra e della Rivoluzione Bolscevica – nella città preferita da Vladimir Putin e che non a caso aveva ospitato anche le Olimpiadi Invernali. La scuderia Marussia ha acceso nella pit lane la sua vettura numero 17 come se Jules Bianchi potesse salirvi dentro e lanciarsi nell’ennesimo tilkodromo nuovo fiammante di Sochi. Jules, intanto, è ancora là a lottare per la sua vita in una stanza di ospedale in Giappone. Il mercato piloti più surreale della storia, dove tutti sanno tutto ma nessuno dice niente, continua ad impazzare. Appunti di una giornata strana, diversa. Una giornata, l’ennesima, di una Formula 1 alla ormai disperata ricerca di sé stessa. Ma fra le cose successe a Sochi vorrei soffermarmi su una apparentemente banale, sfuggita forse nel bailamme delle immagini ad alta definizione, delle telecamere dedicate e delle prospettive on-board. Un fatto, però, che ritengo perfettamente esemplificativo di quale sia il “male oscuro” che sta lentamente erodendo credibilità, popolarità e passione intorno alla F1. Giro 31: il circuito televisivo internazionale manda in diretta un dialogo fra Sebastian Vettel ed il suo ingegnere di macchina alla Red Bull Guillaume Rocquelin. La comunicazione del muretto anglo-austriaco recitava grosso modo così: “Sebastian, ricordati di rispettare il bip”. Il “bip”, ci hanno spiegato dopo, è un segnale acustico che avvisa il pilota quando deve cambiare le marce. Ma, scusate, vi rendete conto? A parte il fatto che se io fossi quattro volte Campione del Mondo, avessi vinto 39 Gran Premi in carriera di cui uno con la Toro Rosso ex Minardi e fatto 45 pole position, non mi lascerei suggerire da nessuno stupido bip al mondo quando diamine devo cambiare una marcia in corsa sulla mia Formula 1, ma quello che è evidente e testimoniato in modo incontrovertibile è la ormai totale marginalità del pilota nella determinazione non solo dei risultati delle gare, quanto ancora più banalmente di una qualunque tattica di corsa, di una qualunque scelta di guida, di una qualunque leva per cambiare l’inerzia di una situazione. Una volta per vincere occorreva il “piede pesante”, ora è necessario avere una Mercedes. Per fare un sorpasso occorreva cuore e stomaco, oggi occorre premere il pulsante “overtake” sul volante. Se il fattore-macchina c’è sempre stato in Formula 1, quello che oggi è cambiata in maniera drastica è la percentuale assolutamente dominate che ha rispetto al fattore-umano. Non solo: le macchine vincenti – entrate nella storia tanto quanto i piloti che le hanno condotte – sono diventate tali grazie all’inscindibile connubio fra grandi progettisti ed ingegneri e grandi piloti, molti dei quali hanno costruito la loro stessa grandezza sulle doti di messa a punto che avevano, sulla capacità di “sentire” una macchina, di capirne si potrebbe dire gli umori, la indole, il carattere. Ascari, Fangio, Brabham, Graham Hill, Lauda, Schumacher erano grandi preparatori di vetture, ancor prima o, forse è meglio dire, proprio perché immensi piloti. Oggi il pilota è una sorta di soldatino telecomandato dal muretto. E fa la differenza solo a parità di macchina (ed infatti Hamilton batte Rosberg). Insomma, tralasciamo le assurdità di questa Formula 1 dove un ragazzo si schianta contro una gru in pista e dove il “capo” dice che trattasi di “sfortuna”, dove un’inchiesta per chiarire l’operato di una direzione di corsa viene affidata… al direttore di corsa, dove tutto viene concepito sempre più come spettacolo e meno come sport, dove regole cervellotiche e contraddittorie producono solo confusione, dove si applicano le trombette ai tubi di scarico per scimmiottare il rombo ormai dimenticato di un motore da corsa, dove l’intero movimento è da trent’anni nelle mani delle stesse persone che hanno l’immobilismo e la massimizzazione del profitto a breve termine come loro unico orizzonte mentale. Tralasciamo tutto questo e ritorniamo al “bip” che dice a Vettel di cambiare marcia: l’unico modo per cui la Formula Uno può invertire una tendenza che la vedrà altrimenti in continuo ed inesorabile declino, è il rimettere al centro il fattore-umano, puntare sugli uomini che fanno grandi le loro macchine e non viceversa. Perché Vettel è profumatamente pagato per decidere di cambiare marcia quando lo ritiene opportuno, anche, al limite, per decidere di sbagliare quella stramaledetta marcia alla faccia di qualunque telemetria, computer di bordo o pilota automatico.